Down in the Valley (2005)

Lo scrittore regista statunitense, David Jacobson, in Down in the Valley (id., 2005) alterna riprese di paesaggi costruiti a quelli naturali usandoli come stacco-pausa per ridare fiato alla vicenda narrata, per ritmare il passaggio da una situazione drammatica ad una pacata o viceversa, a volte solo per dividere una breve sequenza da un’altra anch’essa breve — sempre tutto ritmato dalle musiche country di Per Sallet. [Jacobson da ragazzo, viveva nella San Fernando Valley (location del film), passava il tempo, con la sorella, guardando gli stessi film più e più volte. Tra i suoi preferiti c’era Butch Cassidy (id.,1969) di George Roy Hill (1921-2002) che ha visto diciassette volte]. In tutta la sua vita artistica, David classe 1954, ha fatto altri tre film: Criminal (id,. 1994), Dhamer – il cannibale del Milwaukee (Dhamer, 2002) e Tomorrow You’re Gone (id., 2012), che un  serio cinefilo dovrebbe avere visti.

Ritmo! Piani sequenza… su un incrocio cittadino con il personaggio principale, Harlan, che lo attraversa mentre sullo sfondo passano veicoli d’ogni genere (enormi camion), macchina fissa su pali con cavi elettrici penzolanti, segnalazioni stradali, il sotto di un cavalcavia, un canale per lo smaltimento delle acque, la via di un quartiere popolare, una super strada a sei corsie per direzione (di notte e di giorno) con centinaia di auto che costantemente si muovono a 70 miglia orarie; un gruppo di nuove ville costruite in legno, seguendo ancora oggi i dettami delle antiche costruzioni britanniche in stile Tudor (sempre con le stesse regole architettoniche di allora) e poi… stacco sulle colline desertiche, stacco sulla valle ove scorre il fiume, stacco su un’unica quercia al centro di un vasto territorio, stacco sulla pista sterrata, stacco sul bosco di sequoia. Tanti stacchi per segnalare… far comprendere allo spettatore che il West, malgrado la città di otto milioni di abitanti, esiste ancora, nulla è cambiato. Stacco… per poi arrivare al cinema, per giungere a uno dei tanti luoghi, fuori dagli studios, dove a Los Angeles si girano film western. È nel ‘mistico luogo del cinema’ ove i “caballeros errantes”, Harlan (Edward Norton) in fuga con il piccolo Lonnie (Rory Kulkin), entrambi in groppa al cavallo bianco si rifugiano per passare la notte; dopo che Harlan ha sparato involontariamente nella pancia della sua ragazza Tobe (Evan Rachel Wood) sorella di Lonnie… Sfuggendo momentaneamente allo sceriffo che li insegue in macchina. È proprio nella piazza della cittadina di legno, nel tipico villaggio dei pionieri con chiesa, portici, Barber Shop, Saloon, Grocery, General e Drug Store, che il “mitomane psicopatico” cowboy Harlan, figlio di un rabbino si scontra con la legge, secondo il rituale del duello alla pistola, uccidendo e rimanendo gravemente ferito (mentre, è mattina, e c’è una troupe che sta girando un film sulla piazza principale). 

Il film Down in the Walley, ripeto, è stato girato nella San Fernando Valley, è un atto d’amore del regista per i luoghi che lo hanno visto nascere e crescere. Un opera che definirei western poetico. Sostenuta dalla bravura di grandissimi attori tra i quali David Morse (Wade) il padre sceriffo dei due ragazzi.

Da Wikipedia: “…la San Fernando Walley è una valle urbanizzata nella contea di Los Angeles, in California, nella zona metropolitana stessa, definita dalla dolce linea delle montagne delle Transverse Ranges che la circondano. Essa ospita 1.770.000 persone, ed è a Nord del più grande e popoloso bacino di Los Angeles…”.

A un certo punto del film appaiono gli interni molto interessanti di una costruzione che destano subito il cuore archi-cinefilo… li si vede quando Hallan entra in una delle sinagoghe di Los Angeles — a L.A. ne ricordo tre: la Breed Street Shul (1915), la Wilshire Boulevard Temple (1929) e la Em Habanim Sephardic Congregation (1974) — in cerca del padre rabbino capo che lo aveva abbandonato da piccolo. A cui poi ruba in casa, una menorah d’oro/argento per rivenderla e fare un po’ di soldi.  

Delle tre che ho citato si riconosce la splendida Sinagoga di Wilshire Boulevard in stile Neo-bizantino dell’architetto Abram M. Edelman (1863-1941) parente del fondatore Abraham W. Edelman della comunità B’nai B’rith di Los Angeles. Purtroppo nel film gli esterni della sinagoga non si vedono ma ho potuto dedurre che sia la stessa in quanto nelle sequenze appaiono proprio la forma ottagonale della sala di preghiera, il design dei banchi e le tre porte di ingresso sullo sfondo.

Abram M. Edelman ha realizzato parecchie architetture, tutte iscritte nel National Register of Historic Places USA. Ne cito alcune che vanno ad aggiungersi all’enorme quantità di opere di architettura che la città di Los Angeles offre al turista, allo studente di architettura, alla studioso, agli appassionati. Tra i primi lavori di Edelman è la El Mio House (the Smith Estate, 1887), per il giudice David Patterson Hatch, un casa Vittoriana arroccata su una collina nel quartiere di Highland Park. Dipoi la Blanchard Music Hall (1899) e il Remick Building (1903) entrambi in South Broadway. Nel 1920, Edelman progetta, con suo nipote Leo W. Barnett, il First National Bank Building a Lemon Cove in California, la First National Bank of San Pedro a San Pedro in stile Modernista e anche la Clubhouse (1922) dell’Hillcrest Country Club, un club di golf ebraico a Cheviot Hills, Los Angeles. Edelman nel 1923 completa la già citata Congregation Talmud Torah of Los Angeles o Breed Street Shul in stile Revival bizantino. Sempre di Edelman è la Theosophy Hall di Los Angeles del 1927. Nel 1928 con l’architetto Archie C. Zimmerman progetta l’Alhambra Air Terminal Building presso l’aeroporto di Alhambra (purtroppo smantellato per la riqualificazione immobiliare alla fine degli anni ’40), su Valley Boulevard ad Alhambra, in California. Edelman e John C. Austin (1870-1963) hanno progettato insieme lo spettacolare Shrine Auditorium (1925) di Los Angeles.

Torino in quanto a sinagoghe non scherza, originariamente avrebbe dovuto essere la Mole Antonelliana (1863-1869) di Alessandro Antonelli (1798-1888) ma poi dati gli enormi costi, anche dovuti all’ambizione di Antonelli, la Comunità israelitica decise di trasformarla in edificio laico cedendola alla Città di Torino. Mentre la coeva Sinagoga di Torino (1884) in stile Orientale moresco e ricchissima di decorazioni è dell’architetto ingegnere Enrico Petiti (1832-1898). Segnalo che nei sotterranei del Tempio torinese si trovano due piccole sinagoghe, una ad anfiteatro, usate per le funzioni giornaliere. Realizzate nel 1972 su progetto dell’ingegnere architetto Giorgio Olivetti (1929-2016) e di Giuseppe Rosenthal. Negli anni ’90 Franco Lattes, Paola Valentini e Jeannot Cerutti hanno realizzato il restauro filologico delle quattro torri, delle facciate esterne e degli interni. Mentre di Lattes e Valentini è la nuova Tevà (il pulpito da dove parla il rabbino) e l’attuale sistemazione dei banchi e le transenne che delimitano il matroneo al piano terra.  

Di Petiti ci sono costruzioni in tutta Torino, tra queste il capannone barche e il terrazzo sul Po della Reale Società Canottieri Cerea due piccoli capolavori di ingegneria idraulica (un Case Study). 

Per tornare al film. È la via del cowboy che Hallan percorre; la via del samurai “…quella che ho scoperto consiste nella morte…” così inizia Yamamoto Tsunetomo (1659-1721) il suo codice di comportamento Hagakure (All’ombra delle foglie, 1700 c.a). 

Nel cinema del dopoguerra le due figure, del samurai e del cowboy, sono state spesso messe a confronto, assimilate per via della fedeltà di entrambe al progetto di vita, dedito al combattimento per il combattimento al servizio di qualcuno. Nel film Down in the Walley non ha importanza se Hallan è matto, non hanno alcun valore morale le sue azioni, il giudizio è sospeso. Lui recita il ruolo che si è scelto da sempre, quello del pistolero: Hallan sin dall’inizio sa che la via del cowboy è la morte, il suo è un ideale elevato, quello del sacrificio di se stesso in una azione eroica, ritenendo il ruolo sacrificale, più autentico più importante della vita stessa. 

Proprio per questo il finale del film supera le aspettative: infatti i due ragazzi — accompagnati dal padre che, anche lui un “cowboy”, ha ucciso Hallan per difenderli — non vogliono dimenticarlo, ovvero continuare a viverne il ricordo, per loro è stato semplicemente un eroe olimpico da amare sopra i comuni mortali. Li si vede alla fine sulle colline, sulle Transverse Ranges, a spargere le sue ceneri al vento, loro gli hanno creduto, lui era un vero pistolero un vero amico un uomo gentile fuori dall’ordinario e dal tempo con sempre la consapevolezza di essere già morto, “…dal mattino quando si alzava alla sera quando andava a dormire…”. Down in the Walley è stato proiettato fuori concorso nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2005.

Nota

Ricordo che, I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960), Sfida all’O.K. Corral (Gunfight at the O.K. Corral, 1957) entrambi di John Sturges (1910-1992) e Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, 1957) diretto da Delmer Daves (1904-1977), sono un inno a questi personaggi. Poi riproposti in film magistrali: da Sergio Leone (19229-1989) in Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono il brutto e il cattivo (1966); in modo sublime da Sam Pekimpach (1925-1984) in Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969). 

Foto del Wilshire Boulevard Temple e del Audrey Irmas Pavillon progettato da OMA