La pandemia Covid 19 ha forse consegnato definitivamente al secolo scorso alcuni aspetti distintivi delle concezioni urbane e architettoniche moderne.
Si prenda in considerazione l’elemento principalmente critico: l’alta concentrazione e densità urbana.

La città è, per sua natura, sempre stato un fenomeno di concentrazione e polarizzazione territoriale. Le metropoli moderne hanno accentuato questo aspetto di polarizzazione, reso emblematico dalle costruzioni in altezza. “La città che sale”.

Nel corso del primo decennio 2000 – a dispetto dell’emblematico attentato delle Torri Gemelle – il grattacielo ebbe un rinnovato successo, principalmente dalle metropoli asiatiche in crescita, con record di altezza statunitensi polverizzati dai “supertall”, nuove forme per torri in “cluster” che competono fra loro, e presso il pubblico della Rete mondiale. Edifici climatizzati ed ermetici, non solo riservati ad uffici ma anche a residenze.

Ma anche al di fuori di abitazioni ed uffici abbiamo assistito nello stesso decennio ad un deciso sviluppo della polarizzazione su specializzazioni funzionali: grandi campus, grandi luoghi per il commercio, ecc. secondo il paradigma della “bigness”.
Tutto questo è l’antitesi di un insediamento propizio al contrasto ai contagi virali, dati gli assembramenti sui luoghi chiusi, e la necessità di uso dei trasporti pubblici con picchi di affollamento corrispondenti agli orari di punta. Certamente i grattacieli ed altri “compound” consentono un efficiente sistema di controllo di accesso, di monitoraggio, ma in ogni caso costituiscono forme di concentrazione per loro stessa natura, che oggi risultano di pericolosa gestione.

Sotto un altro profilo, concentrazione urbana significa anche alta intensità di uso dello spazio abitato, maggiori prezzi in funzione delle minor distanze dal cuore dei poli metropolitani. Quindi spazi tendenti allo “existenz minimum”. Minime, ma per principio di economia e produzione seriale, cellule in abitazioni collettive di ampie dimensioni, con servizi comuni. Anch’essi oggetto di recente revival in forme di “co-housing”, ed altro genere di residenza collettiva.

Tutto questo, già in parte messo in difficoltà a partire dalla “crisi” del 2008, è invecchiato tremendamente nel giro di pochi mesi.
Personalmente non ho mai creduto alla possibilità che la pandemia possa avere una lunga durata, a differenza di molti illustri architetti che in questi mesi hanno immaginato cambiamenti radicali a lungo termine dei modi di abitare a causa della permanenza del virus, immaginando il ripristino dei borghi fuori città, con ampi spazi disponibili anche all’aperto con connessioni “wireless”.

Questi scenari, immaginati a partire permanenza del virus, sono spesso auspicabili di per sé, e anche all’interno della modernità, che – non va mai dimenticato – ha sempre avuto una doppia natura, una sorta di antitesi interna. Basti pensare alle concezioni disurbaniste di F.L.Wright, o a quella che oggi potrebbe parere una profezia da parte di Lewis Mumford, che le megalopoli si sarebbero trasformate in necropoli.

Indubbiamente questa pandemia, con la scossa che ci ha dato può, pur cessando, avere un effetto positivo nel ripensare per il futuro gli spazi urbani. La città, la densità, questa polarizzazione urbana ci saranno sempre finché l’uomo popolerà la terra, perché è nella sua natura, perché l’uomo è davvero un animale sociale e la socialità non può esprimersi unicamente attraverso mezzi di comunicazione, attraverso “media”.

Ma ripensare, ridisegnare la città che si è costituita nel secolo scorso nelle “periferie”, con certi criteri di cui oggi vediamo meglio i limiti e i difetti, è forse più facile dopo la pandemia. e’ necessario, indipendentemente dalla sua durata.
Questo programma di revisione è nuovo, deve essere sperimentale, è ineludibile e non può più essere solo un gioco di parole che maschera, magari dietro a cespugli di verde, concezioni ormai appartenenti al secolo scorso.

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