L’Oscuro Covid 19, protagonista principale se non unico delle nostre giornate da reclusi, tra le sue misteriose sequenze genetiche deve contenere anche un qualche codice di sarcastica ironia – come “‘a livella” di Totò – dal momento che, come effetto collaterale, compone stridenti antinomie e assesta formidabili scossoni a derive che sembravano irreversibili e che stanno invece rivelando tutta la loro fragilità. A partire dalla presentazione della prossima Biennale di Architettura a Venezia; il tema intorno a cui si articolerà la mostra diretta da Hashim Sarkis sarà “How Will We Live Together?”, ma la conferenza di presentazione a Ca’ Giustinian ha dovuto subire la beffa di svolgersi a porte chiuse e in diretta streaming. Va sans dire che l’augurio di tutti è che la Biennale possa rispettare i tempi oggi previsti 29 Agosto – 29 Novembre 2020, e che possa raccogliere, intorno al tema dell’Architettura come impronta della convivenza sociale, la meritata attenzione destinata a quegli eventi che avranno la fortuna di celebrare l’uscita da una delle crisi globali più drammatiche della storia.

Il DCPM del 22 marzo indica le attività degli studi professionali tra quelle che possono rimanere aperte (tanto per non generare confusione, al decreto nazionale si sovrappongono i provvedimenti regionali, che invece ne dispongono la chiusura). Con lo sguardo dell’architetto, la prima considerazione che mi viene in mente è che, mentre gli studi restano aperti, i cantieri sono perlopiù chiusi, ad eccezione delle infrastrutture e dell’edilizia sanitaria. Un paradossale contrappasso che privilegia, almeno nel nostro settore, la fase del lavoro tecnico-intellettuale rispetto a quella che conduce alla realizzazione fisica dei manufatti. Una attenzione che non abbiamo finora riscontrato negli apparati normativi prodotti dalle Pubbliche Amministrazioni, non lo abbiamo trovato nel Codice degli Appalti, che dimentica ogni possibile interdipendenza tra progetto e realizzazione, non lo abbiamo trovato nelle procedure e nelle tempistiche imposte dalle gare, non lo abbiamo trovato nei criteri di valutazione delle tariffe professionali, non lo abbiamo trovato in un quadro normativo e in una prassi politica che sistematicamente mortificano il progetto di architettura, relegato a fastidioso adempimento necessario ma sostanzialmente indifferente al valore incorporato dai manufatti realizzati.

Ma se così fosse, se anche solo in minima parte questo ragionamento avesse contribuito alla ratio del provvedimento – e siamo tutti consapevoli del fatto che così non è – val la pena ricordare che ben difficilmente in Architettura concezione e realizzazione possono essere scissi; sono piuttosto legati da una logica circolare, si nutrono l’uno dell’altro, e l’uno nell’altro trovano fondamento.

La drammatica dinamica con cui il virus si sta espandendo nel mondo, lo sforzo immane a cui sta sottoponendo le strutture sanitarie, mettono in evidenza quale sia davvero la prima linee su cui si combatte oggi (e plausibilmente si dovrà ancora combattere in futuro, visto che molti scienziati autorevoli avevano da tempo segnalato la minaccia sempre più incombente di nuove inedite epidemie) la sfida della pandemia; questione che non è affatto indifferente agli assetti urbani che ne derivano. Mentre da molti anni a questa parte il nostro sistema sanitario si è polarizzato intorno al paradigma dell’“eccellenza” (a proposito, che ne è del Parco della Salute, che fino ad alcuni mesi fa polarizzava l’attenzione della Sanità Piemontese?) canalizzando investimenti, politiche, assetti territoriali secondo la logica della concentrazione localizzativa, della attenzione focalizzata su patologie rare e circoscritte che richiedono élite di personale altamente specializzato e attrezzature ad elevatissima tecnologia; mentre veniva lasciato invece in secondo piano, riducendo finanziamenti, strutture, organico, il complementare e necessario consolidamento di una rete capillare di presidio, prevenzione e assistenza sul territorio. Il fianco scoperto del sistema sanitario – che fortunatamente si è rivelato resiliente (questa volta il termine è appropriato) sia pure con estrema fatica e abnegazione, ai tagli e agli indirizzi di una dirigenza travolta dalle seduzioni tecnocratiche – si è manifestato, appunto, nella mancanza di una rete diffusa e flessibile, capace di interagire quotidianamente con il divenire della città e del territorio, di affrontare un arco di aspetti della salute che riguardano soprattutto il prima e il dopo acuzie e che appaiono più facilmente risolvibili se, anziché elevare ulteriori barriere, si rendono più permeabili i confini tra ospedale e città, se si affrontano con soluzioni innovative i problemi della formazione e dell’informazione sanitaria, della assistenza domiciliare, dell’educazione al benessere, della lungodegenza, del ricovero dei casi di quarantena e dei dimessi dalla rianimazione.

Tra le derive che sembravano irreversibili, molti di noi (me compreso) hanno denunciato il prevalere della dimensione scenografica e spettacolare dell’Architettura come grave semplificazione e asservimento al turbo-liberismo: l’egemonia dell’icona sulla tettonica, dello skyline sulla topografia, del design autoreferenziale sul contesto, del potere comunicativo dell’involucro sull’evoluzione dei comportamenti abitativi.

Oggi, che dobbiamo rinunciare a percorrere le città e i territori esterni, il paesaggio che ci si presenta è prevalentemente quello dell’interno delle nostre case. E anche il nostro rapporto con gli altri, per mezzo delle diverse piattaforme informatiche, passa attraverso le immagini quotidiane della nostra vita domestica. Persino il leader canadese Justin Trudeau, costretto in quarantena nel proprio cottage di Ottawa con tre figli piccoli, rinuncia ad ogni orpello formale, ad ogni set istituzionale e si presenta disinvoltamente al mondo, reggendo saldamente il timone del paese dal proprio interno domestico, mentre allo stesso tempo si occupa dei ragazzi, cucina, fa le pulizie e il bucato. Trovate un intelligente reportage su questa nuova condizione dell’Architettura sull’ultimo numero di Domus, nel redazionale dal titolo «Come abitiamo in quarantena: un diario».

L’Architettura riconquista la sua dimensione “cava”, riconduce alle logiche reali del suo configurarsi, in rapporto con la possibilità di essere plasmata da chi la abita, dai suoi comportamenti, dai suoi immaginari, dalle sue emozioni e, in modo più o meno consapevole, dal modo in cui il proprio immaginario domestico rappresenta la nostra identità. Se vogliamo inoltrarci in territori ancora più ardui, la densità della comunicazione simbolica che la casa trasmette, come proiezione pura dell’interiorità, nella dimensione del conscio e dell’inconscio, trova una esplorazione psichica eloquente nel famoso sogno di Carl Gustav Jung, riportato in “Ricordi, sogni, riflessioni”: nel sogno, la casa con la sua sequenza di piani rappresentava tutte le stratificazioni della sua coscienza, dal piano superiore (la consapevolezza, la razionalità, il quotidiano) procedendo verso il basso fino a quelle più remote (la caverna preistorica e le profondità dell’inconscio) fino a scoprirvi i recessi più lontani dall’esperienza del presente, più legati ad aspetti collettivi e archetipici.

Tra gli scenari marginali che potrebbero caratterizzare l’uscita dal tunnel, molti prevedono ampie opportunità di lavoro per gli psicologi, visto il dilagare dell’ansia; degli avvocati, viste le tensioni prodotte dalla forzata convivenza; degli ostetrici, per le tante coppie che hanno potuto occupare al meglio la quantità di tempo e di intimità disponibile; auguriamoci che ci siano le condizioni nel prossimo futuro affinché il ruolo rivitalizzato della dimensione domestica possa diventare una nuova opportunità di lavoro anche per gli operatori dell’Architettura.

Nella foto  Il progetto Orwell dello studio Goula/Figuera:  un luogo non luogo concepito per isolarsi all’interno della propria abitazione.