Che esista un nesso causale diretto tra eventi pandemici e caratteri dello spazio insediativo è reso immediatamente evidente dal fatto che il principale provvedimento di contrasto pressoché universalmente adottata è quella della misura della distanza interpersonale, misura che varia in ragione dell’ambiente (chiuso, aperto) e della funzione svolta (ricordate le misure antropometriche de “il Manuale dell’Architetto?).
Un secondo aspetto che emerge in modo incontrovertibile è quello della coincidenza tra probabilità di infezione e intensità delle connessioni fisiche – alle diverse scale – che si intrecciano sul territorio, tracciando in questo modo mappe composte da aste e nodi che si sovrappongono perfettamente alla distribuzione geografica delle infrastrutture di collegamento, alla distribuzione degli insediamenti, alla intensità dei flussi e ai caratteri geo-politici che identificano le diverse forme con cui i raggruppamenti umani instaurano delle relazioni con il mondo e con l’ambiente che abitano.
Un terzo aspetto emerge dal principale nodo attorno a cui si è sviluppato il confronto sulle strategie di contrasto fornite da diversi modelli di sistema sanitario schierati sul territorio: da una parte, un modello rivolto alle acuzie della malattia, fortemente orientato alla concentrazione di edifici e zone funzionali specificamente configurate, all’eccellenza clinica e scientifica in grado di fornire cure ad elevato livello di competenze intersettoriali e di dotazioni tecnologiche sofisticate e costose; dall’altra un modello rivolto alla prevenzione e all’individuazione dei sintomi insorgenti, capillarmente diffuso, flessibile e mobile, in grado di fornire primo soccorso e gestione diretta delle diverse fasi, assistenza e gestione della popolazione malata, anche domiciliare e distribuita nel tempo, durante le fasi di isolamento preventivo, di decorso, di convalescenza; mentre il secondo modello anticipa il percorso del virus e lo intercetta prima che produca emergenze gravi, si dispiega sul territorio e concorre, con gli altri settori che compongono l’ampio ventaglio delle forme dell’abitare, a disegnare un sistema urbano integrato, il primo interviene prevalentemente quando il decorso della patologia supera la soglia di criticità e, sotto il profilo della trama urbana introduce delle forti discontinuità, luoghi esclusivi ed eccezionali, governati da regole che difficilmente coincidono con le matrici delle città e dei territori al contorno.
Un quarto aspetto è costituito dalla diversa percezione dell’ambiente abitativo che il lockdown ha imposto in modo pressoché globale, sovvertendo le relazioni tra spazi pubblici e spazi privati, imponendo una torsione manifesta sugli usi degli spazi domestici, dei luoghi di lavoro e di quelli collettivi, amplificando l’esigenza di rinegoziare gli standard, di introdurre nuove esigenze funzionali e di contrastare le disuguaglianze sul diritto alla casa e alla città; anche l’irrompere delle esigenze sanitarie nella gestione quotidiana degli ambienti abitativi, la necessità di spazi filtro, di igienizzazione delle superfici, di ventilazione, di luce, può caratterizzare l’impatto del virus su forme e dimensioni delle cellule che compongono l’ambiente costruito. Un quinto aspetto riguarda le evidenze di interazione tra patologie, ambiente e geografia: oltre ai caratteri insediativi, al loro livello di concentrazione o dispersione e ai modelli di comportamento sociale connessi, la cui incidenza sulla propagazione del contagio è intuitiva, sarebbe davvero difficile affermare che gli aspetti climatici, i livelli di inquinamento, la presenza di flora e fauna, l’orografia, l’idrografia, gli ostacoli che determinano l’isolamento di determinate aree, i varchi che le mettono in comunicazione con il mondo intorno e tutti gli altri aspetti morfologici del territorio non abbiano incidenza alcuna sulle dinamiche pandemiche.
E probabilmente ci sono altri aspetti ancora, di cui non ho qui tenuto conto, che riconoscono al nostro modello di conoscenza e azione un ruolo potenzialmente insostituibile per concepire strategie efficaci contro la pandemia. Presumibilmente, se sovrapponessimo le mappe del contagio con carte tematiche legate ai diversi fattori morfologici, ambientali, insediativi, alle intensità e ai modelli dell’abitare ecc. ne potrebbero emergere deduzioni interessanti e utili. D’altronde è evidente che questa pandemia si impone come segno cospicuo nel tracciato della Storia umana, ne pervade la totalità delle diverse manifestazioni sociali, travalica le percezioni individuali o di gruppi di popolazione per influenzare globalmente le rappresentazioni del tempo e dello spazio, le interazioni con l’ambiente e con le istituzioni. Per conoscerla e per definire strategie di contrasto è necessario percepire l’insieme per cogliere l’essenziale.
Dunque, ne discende che le varie discipline che studiano il territorio antropizzato – dall’architettura all’ingegneria, dalla geografia alle “scienze della terra” – debbano giocare un ruolo determinante nel fornire contributi sul piano interdisciplinare alle varie “task force” istituite dai differenti livelli amministrativi e dai vari ministeri, per fornire autorevolezza “scientifica” alle azioni di governo del Paese. Task Force che, in modo più o meno esplicito, si dichiarano multidisciplinari, ma sono molti a denunciare il fatto che tra la folla di esperti arruolati nei vari comitati tecnico-scientifici, nessuno risulti avere competenze corrispondenti alle questioni che ho precedentemente esposto: non ho potuto verificare questa affermazione per ciascuno dei componenti dei molteplici comitati (sarebbe stato troppo lungo e noioso) ma – a campione, d’altronde i criteri di selezione delle competenze si ripetono nei vari organi – posso affermare che compaiono prevalentemente esponenti del mondo sanitario (ci mancherebbe), delle scienze informatiche, della comunicazione, del management, delle scienze economiche e sociali; i membri che più incarnano saperi affini a quelli dell’Architettura e del Territorio sono gli esperti di Beni Culturali, di Infrastrutture e di Turismo.
Questo la dice lunga sull’attenzione che la classe politica del nostro Paese rivolge ai temi degli insediamenti umani, ai caratteri peculiari del suo territorio, al giacimento di potenziale ricchezza che in esso è depositato; ma questo non ci stupisce.
Quello che invece un poco ci stupisce è il differente significato che, nei diversi settori di esercizio del sapere, si attribuisce al concetto di interdisciplinarità: mentre nel diverse articolazioni dell’Architettura, da tempo si è affermata (non senza resistenze) l’idea che le forme materiali dell’abitare si generino a partire dalle molteplici espressioni dell’esperienza umana, di cui sono “abito” e impronta fisica, e che dunque ogni aspetto di conoscenza e di azione specialistica debba essere indissolubilmente contaminato dalle conoscenze contigue al contesto in cui si esercita (immagino che un buon sarto debba essere in grado di accogliere, nell’esercizio della propria “ars”, anche gli aspetti fisiologici e psicologici dei clienti).
Possiamo affermare, sia pure con qualche accentuazione partigiana (la tentazione rendere le competenze più autonome, specializzate e separate, per quanto si sia rivelata sintomo di arretratezza e riduttività, nell’orizzonte delle sfide globali del Pianeta, conquista a volte anche il mondo dell’architettura), che l’interdisciplinarità ovvero il tentativo di ricomporre la frammentarietà con cui le diverse discipline descrivono il mondo fisico, sia uno degli aspetti che più caratterizzano e rendono virtuose le attitudini della buona architettura; più di quanto la buona architettura non sia ascrivibile a categorie astratte come efficienza, armonia e bellezza.
Non sono così sicuro che lo stesso concetto di interdisciplinarità sia condiviso e praticato in tutti gli altri ambiti disciplinari, tanto più in quelli in cui si esaltano gli “specialismi” come modelli esemplari di avanzamento della conoscenza. Tanto più quando percepisco, nella strategia mediatica messa in atto di chi si è trovato nel – non invidiabile – compito di governare il vascello nella tempesta, le tracce di retoriche “scientiste” a volte così ingenuamente autoreferenziali da accentuare, anziché alleviare, la preoccupazione: «Chiedo alla comunità scientifica, senza polemica, di darci certezze inconfutabili» risulta aver detto il Ministro Boccia.
Come scrive Alain Supiot, celebre giuslavorista e teorico del diritto, nel suo contributo al dibattito avviato dal Collège de France sul ruolo delle scienze alla luce della crisi sanitaria in corso «Questa inversione di ruoli mette in pericolo non solo la democrazia, ma anche le scienze stesse. Esse hanno infatti bisogno di tempo e di polemiche metodologiche per comprendere un fenomeno inedito, perché il loro contributo al progresso delle conoscenze presuppone che rinuncino alla Verità con la ‘V’ maiuscola.»
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