DISCIPLINA DELL’ESERCIZIO DELLE PROFESSIONI DA PARTE DEI CITTADINI DI RAZZA EBRAICA
Con Legge 29 Giugno 1939, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 2 Agosto 1939-XVIII, N. 179, sono state dettate le norme seguenti circa l’esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica:
CAPO I.
Disposizioni generali
- Art. 1. L’esercizio delle professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale, è, per i cittadini appartenenti alla razza ebraica, regolato dalle seguenti disposizioni.
- ……
Successivamente, nell’Agosto dello stesso anno, una circolare ministeriale vietò l’iscrizione degli alunni di razza ebraica alle scuole di qualsiasi ordine e grado e venne in particolare espresso il divieto di iscrizione presso qualsiasi Ateneo italiano per gli studenti ebrei a partire dall’anno accademico 1938-1939.
Con la loro promulgazione, quelle leggi affermavano che «le razze umane esistono» che ad alcune sia assegnato il naturale compito di dominare sulle altre, e in particolare che tra queste «esiste ormai una pura “razza italiana”» che, attraverso quelle leggi, si intendeva difendere.
In base a quelle norme, la sola appartenenza ad una determinata “razza” era ritenuta sufficiente a stabilire la condizione sociale, il grado di godimento di diritti e di partecipazione alla vita pubblica, la dignità umana e civile di ogni singolo individuo e, in base ad una postulata gerarchia di “purezza”, disporre limitazioni e divieti che ne eliminassero ogni possibile contaminazione.
Per un po’, per gli Ebrei la vita potè continuare, sia pure con gravi difficoltà dovute alla perdita del lavoro e dei diritti, oltre che al diffondersi del pregiudizio e della paura, ma dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli Ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio. Come è noto, quell’insieme di vicende che – nell’Italia fascista, nella Germania nazista e nei paesi sottoposti al loro dominio politico e militare – avrebbero poi condotto alla Shoà, non coinvolse solo gli Ebrei, ma anche Rom, omosessuali, dissidenti, affetti da deformità e malattie mentali…
Non mi pare rivesta alcuna rilevanza generale, nel valore di una vita discriminata, minacciata, lacerata, se sia essa stata quella di un architetto o un ingegnere o appartenente a qualsiasi categoria professionale, rispetto al valore della vita di ogni altra vittima di quelle leggi, umile o socialmente elevata che fosse. Anzi, è legittimo ritenere che i professionisti e coloro che avevano ricoperto alti ruoli istituzionali, sia pur discriminati e perseguitati, grazie alla loro precedente condizione sociale e ad una relativa disponibilità economica, ebbero probabilmente maggiori opportunità per sopravvivere.
Quello che davvero conta è che in quel tragico brano di storia, chi vuole e sa, sia in grado di risalire alle origini e agli effetti, all’inconsistenza teorica unita alla inquietante efficacia nel manipolare le masse, della discriminazione combinata con la sopraffazione.
Non si può però negare che la percezione dell’orrore morale costituito da quelle leggi, possa essere colta con maggiore o minore immediatezza anche in relazione al grado di coinvolgimento che ciascuno è in grado di riconoscere tra la propria condizione attuale e quella di chi ne fu, 80 anni fa’, testimone e protagonista: anche l’appartenenza alla stessa comunità di interessi scientifici e professionali può forse contribuire a smuovere le coscienze, in questo clima tetro di rimozione degli ideali di progresso e umanità, quelli che a molti di noi sembravano ormai universalmente e irreversibilmente affermati.
È per questa ragione, per non sottrarsi alle responsabilità che la Storia ha assegnato alle Istituzioni a quei tempi conniventi con il Regime, che l’Università degli Studi di Torino ha organizzato e allestito la mostra”Scienza e vergogna. L’Università di Torino e le leggi razziali” e per le stesse ragioni
il Politecnico di Milano ha prodotto una ricerca nei propri archivi «allo scopo di ricostruire le procedure di espulsione messe in atto nei confronti di docenti e di studenti di “razza ebraica” dal Politecnico di Milano». A San Rossore, il luogo in cui furono firmate quelle leggi, nei mesi scorsi sono state organizzate cerimonie e poste lapidi; probabilmente molti altri eventi, di cui non ho informazione, sono stati organizzati per adempiere ad un sentimento civile che non intende separare la celebrazione della memoria con il riconoscimento delle cause, dei processi, delle responsabilità che emergono dai fatti storici. Eppure, quanti Enti e Istituzioni già allora funzionanti mancano ora all’appello? Quanti hanno ritenuto che l’impegno della memoria non rientrasse tra i loro compiti riconosciuti?
Non è difficile risalire ai nomi – alcuni anche noti – di coloro che a causa di quelle leggi dovettero rinunciare alla loro vita e al loro lavoro, furono estromessi da incarichi in cui avevano investito passione e fatica, furono segregati e costretti a scegliere tra esclusione, fuga o ribellione. Non sono poche le figure anche di rilievo nella storia dell’architettura contemporanea, ad essere state coinvolte dalle leggi razziali in Italia o in Germania e taluni, anche tra i non ebrei, ad avere preferito la strada della ribellione, piuttosto che assecondare un regime totalitario, guerrafondaio e oppressivo.
Costruire edifici, architetture, insediamenti significa erigere muri, delimitare spazi, stabilire gerarchie, organizzare il territorio secondo determinati principi di ordine sociale, dividere funzioni, cose e persone, ma significa anche aprire soglie e varchi, stabilire connessioni tra luoghi e pratiche sociali, avvicinare risorse, indirizzare flussi, consentire accessibilità e condivisione. Esiste un’architettura che esclude e un’altra che include. Esista una architettura che si rivolge ad una casta esclusiva ed una che si riconosce responsabile verso la collettività. Esiste una architettura che ripete schemi precostituiti ed una animata dallo spirito di inesauribile ricerca. Esiste una architettura dell’ordine prestabilito e quella della “dissonanza”, che tanto affascinava la personalità inquieta di Bruno Zevi.
Sta a noi scegliere.
foto del Museo-monumento del deportato di Carpi progetto dello studio BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers), in collaborazione con Giuseppe Lanzani e Renato Guttuso.