Che tra Architettura e Politica esista un rapporto diretto e bidirezionale, che (parafrasando Petrini) ogni atto di Architettura sia – intenzionalmente o no – anche un atto politico, e che ogni forma assunta dalle relazioni sociali depositi la sua impronta fisica sul territorio non è affatto una constatazione originale. Molto è stato detto e scritto da filosofi, sociologhi, antropologi, storici dell’arte, geografi, architetti, giornalisti e cineasti sul tema del rapporto tra spazio abitato e diritti.
Da un’ampia prospettiva temporale, l’Architettura con la A maiuscola – quella che occupa un posto di riguardo nella storiografia ufficiale – sembra aver prosperato soprattutto sotto l’egida del Principe; al di là dell’indubbia rilevanza dell’impegno intellettuale, tecnico, artistico dei (pochi) protagonisti della storia della disciplina, occorre constatare quanto sia più facile, diretto, efficace, assumersi il ruolo di dare rappresentazione all’impronta del potere sul territorio, interloquire con una volontà univoca sostenuta da un consenso più o meno compatto, riferirsi ad un universo simbolico consolidato fatto di canoni e ortodossie, e disporre di un canale di risorse ingente o almeno coeso, piuttosto che inseguire, da parte di una categoria professionale numerosa e disomogenea, linguaggi e strategie plurali, distribuite in retoriche evocative eterogenee, suggerite da un universo mediatico sconfinato, con priorità funzionali differenti e risorse frammentate e limitate, sottoposte a una moltitudine inestricabile di organismi di controllo e corpi normativi.
Mentre l’interesse del Principe è prevalentemente (ma non sempre) rivolto al Monumento e all’Eccezionale, quello dei poteri distribuiti è prevalentemente indirizzato al tessuto e al quotidiano. Mentre l’Architetto del Principe è prevalentemente rappresentato come un “eroe solitario” la figura dell’Architetto “democratico” è sovrapposta a una moltitudine di co-protagonisti, fino a dissolversi nella “partecipazione”: un concetto troppo spesso distorto, strumentalizzato e banalizzato che, anziché permettere alla collettività di condividere e confrontare prefigurazioni dei diversi progetti possibili, diventa ricorrentemente una formalità taumaturgica, in cui si amalgamano indifferentemente stereotipi convenzionali con legittimi bisogni, desideri e strategie.
Nelle società fortemente gerarchizzate, il possesso “privato” della terra è riconducibile nel suo ordine piramidale a coloro che incarnano la gerarchia del potere, mentre quella “pubblica”, il cui accesso è regolato da norme più o meno vincolanti, è orientato oltre che alla funzionalità dei flussi, alla celebrazione delle cerimonie collettive gradite ai sovrani. A volte, alla sovranità del Principe si è affiancata o sostituita la pretesa sovranità di categorie ideali: perfezione, efficienza e razionalità, come nel disegno di Palmanova, nel piano per New York, nella Parigi di Haussmann o nella Barcellona di Cerdà….
Nelle società in cui il potere istituzionale è esercitato o quanto meno appare distribuito in modo più o meno diffuso, lo spazio “privato” è prevalentemente sottratto all’uso comune e sottoposto a logiche mercantili, mentre quello “pubblico” – oltre che a costituire la rete che alimenta i flussi e struttura il territorio – assume la connotazione di “tessuto connettivo” e di luogo di fruizione collettiva della città, di teatro delle pratiche “civili” in cui si rinnova il patto sociale, di nodo territoriale di riferimento e appartenenza di comunità, di metafora del livello di “accoglienza”, “integrazione”, “serendipità” che una data forma sociale è in grado di assumere.
Quanto meno, questa è – grossolanamente interpretata – la narrazione istituzionale delle forme che la società si è voluta dare, così come viene rappresentata attraverso i media “accreditati”.
Certo, l’Architettura della Democrazia, nella sua indeterminatezza, sfugge maggiormente alla identificazione più di quanto non riesca a fare quella del Principe (nelle sue varie forme istituzionali), ristretta entro tipi e linguaggi celebrativi limitati; i caratteri della Architettura della Democrazia sono più controversi, dilaniati tra la rappresentazione della “coesione” e quella della “molteplicità”: vi sono molti esempi, nel Passato come nella Contemporaneità, di spazi e forme che sono diventate metafora della “Polis”, dell’Architettura Civile, dalle varie Agorà ai Parlamenti nazionali e internazionali, così come non mancano progettisti, da Ralph Erskine a Lucien Kroll ai più attuali MVRDV, che si sono cimentati con linguaggi plurali e includenti, disponibili alle contaminazioni, in grado di accogliere il clima della sovrapposizione di culture, modelli di abitare molteplici in una società sempre più cosmopolita e poliedrica.
Al di là della sua ragione celebrativa e linguistica, non c’è dubbio poi che l’Architettura rispecchi, assecondi, contribuisca al concreto dispiegarsi sul territorio di modelli di produzione e consumo e di rapporti tra articolazioni sociali che la società ha inteso adottare. Molti – oltre alla già citata “partecipazione” – sono i topoi che ricorrono nell’attuale relazione tra Architettura e Politica: oggi il tema della “sostenibilità”, con il diffondersi della consapevolezza dei profondi squilibri ambientali e sociali prodotti dallo “sviluppo produttivo”, pone con drammatica urgenza la necessità di riconsiderare il bilancio complessivo di risorse messo in gioco da ogni atto di Architettura. La trasformazione dello spazio fisico e dei modi di abitarlo rimanda direttamente ad un campo vasto e interrelato di scelte politiche in cui sono coinvolti vari portatori di interesse, alcuni in grado di esprimere concretamente la propria volontà perché occupano fisicamente il Presente, altri che non sono in grado di comunicare bisogni e volontà se non in forma astratta, o perché appartengono ad altre forme dell’ecosistema o perché appartengono alla schiera potenziale delle generazioni future.
Ma l’aspetto, attualissimo, attraverso cui più concretamente e drammaticamente la Politica irrompe nell’Architettura, discende dalla natura stessa dell’atto del progettare, dalla combinazione di due concetti elementari: “separare e connettere”.
Definire un confine o tracciare un percorso, attraversare o interrompere, stabilire distanze e prossimità, concentrare o disperdere, aprire soglie e passaggi, permettere o impedire un campo visivo, offrire riparo o esporre al pericolo, esibire o nascondere, sono azioni tutte facilmente riconducibili a questi due concetti. Come nei miti di fondazione, attraverso il tracciato che delimita o il varco o il ponte che congiunge, si definisce ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, ciò che divide e ciò che unisce, ciò che accoglie e ciò che esclude; attraverso quell’atto progettuale si agisce sui comportamenti, sulle percezioni, sulla stessa condizione umana che ci permette il riconoscimento del Sé e dell’Altro, dell’Amico e del Nemico, sullo spazio dell’incontro piuttosto che su quello della discriminazione.