LAND (2018) di Babak Jatali

Il film Land (2018) scritto e diretto dal regista iraniano Babak Jatali, con la splendida fotografia di Agnès Godard (nessuna relazione con il celebre regista), fa capire attraverso continui piani sequenza, primi piani, tempi lunghi per riflettere, la dignità di un popolo espressa attraverso il mito dell’identità nazionale e della propria irrinunciabile storia. Parla di Jalaly, della nobiltà di una donna, di una madre, capo di una famiglia Sioux con 3 figli adulti, di cui due alcolizzati e il terzo in guerra. 

I Lakota/Dakota Sioux, confinati in varie riserve tra queste quella Prairie Wolf, non tutti sanno, vivono come “stato autonomo” secondo regole imposte dagli USA dopo la resa di Toro Seduto del 1883. È la storia nascosta e dolorosa degli indiani d’America di oggi. Tra alcol, duro lavoro stanziale e il ricordo di un passato olimpico-eroico, ai margini della più potente società del mondo. Un film presentato al 36° Torino Film Festival e alla Berlinale 2018, prodotto da Ginevra Elkan alla quale bisogna riconoscere una certa sensibilità e un certo coraggio commerciale. 

I Denetclaw, per l’appunto, discendenti di Aquila Gialla, una famiglia di irriducibili nativi americani pellerossa, ricevono la notizia della morte in combattimento di Floyd in missione in Afghanistan. Un capitano dell’esercito americano che ha scelto il mestiere del soldato, quello dei suoi avi, nomadi cacciatori guerrieri, ritenendolo più dignitoso per un indiano del vivere nella riserva. Nell’attesa che arrivi la salma, il fratello minore Wesley (James Coleman) alcolista — di solito passa le sue giornate insieme a una sua amica a bere birra seduto davanti all’emporio appena fuori dalla riserva — viene massacrato senza una reale ragione da due ragazzi bianchi, figli della proprietaria del bar, finendo in ospedale con testa, braccio e gamba rotte. Ma la madre Jalaly (Wilma Pelli) e il fratello maggiore Raymond (Ron Rondeaux) — si sta disintossicando dall’alcol — fanno sapere a Sally (Florence C.M. Klein) madre dei due ragazzi che non sono disposti a rinunciare alla integrità etica morale delle loro tradizioni. Rifiutano l’aiuto dello sceriffo della comunità che vuole fare indagini per assicurare alla giustizia i responsabili. Prima vendicano Wesley riempiendo di botte i due bianchi. Poi seppelliscono Floyd restituendo e deponendo ai piedi del colonnello dell’esercito degli Stati Uniti che comanda il drappello d’onore — fermo con i suoi uomini al confine della riserva — il vessillo yankee ripiegato a triangolo che secondo tradizione ricopre la bara dei caduti USA in battaglia, sostituendolo con la coperta funebre Sioux.  

Un film dove, finalmente, non si parla di razzismo, ma di uomini e donne alla pari che all’interno di un certo contesto sociale etnico culturale cercano di convivere in pace non sempre riuscendoci, a volte scontrandosi a volte venendo a compromessi. Mai integrandosi. Esseri umani che vivono nell’accettazione degli eventi. Senza demagogia, retorica dei buoni contro i cattivi. Gli umani sono tutti cattivi… specialmente quelli che parlano di voler il bene degli altri. Un film contro l’omologazione, il conformismo, il pensiero unico. Viva la diversità.

Descrivere l’architettura in questo film potrebbe a prima vista sembrare problematico se non si riconosce il contesto paesaggistico diegetico molto interessante in cui si svolge la pellicola: le colline desertiche, le piste e le strade di terra, la pochissima vegetazione. La bellissima via rettilinea dei bovini, una stalla all’aperto ove la mandria, posta sui due lati, viene foraggiata e munta. Unico neo di Land (forse dovuto al budget limitato) è che le riprese si sono svolte in Messico — mentre i Lands dei Sioux si trovano nel Missouri, nel Minnesota, nella regione dei Grandi Laghi del nord, nel Dakota del sud, una scelta incomprensibile — in particolare nella Bassa California una regione messicana situata nella penisola omonima a sud di Los Angeles. 

Guardando Land si vede subito dal Bob’s Liquor Store che siamo in Messico e non nel nord America. Un emporio in mattoni di terra intonacato tipico dei pueblos, cosi come il paese in lontananza sulle colline desertiche, simile alle tipologie delle abitazioni Hopi sulle sponde del Rio Grande. Altra costruzione, che negli States si può trovare ovunque, è la casa contadina in legno degli Denetclaw. Case organiche frutto del pauperismo minimalista spontaneo molto lontane dalla cultura del Tipi Sioux: tende coniche di base circolare di diametro 5 metri fatte di 10/20 pertiche incrociate al vertice ricoperte di pelli di bisonte cucite insieme, con una porta circolare per entrare e il focolare al centro, rivestite all’interno con teli di lana di capra, con letti e sedili posti lungo il contorno. Il Tipi concepito e fabbricato dalla donna, porta spesso decorazioni esterne, perfezionato nei secoli, è molto leggero, semplice da montare, smontare e trasportare. L’architettura si fa con quello che c’è a disposizione. La tenda è la casa d’emergenza.

In America il legno, un materiale a prima vista meno durevole, viene preferito per la sua duttilità, velocità di utilizzo, versatilità e costo. Ce né molto per via delle grandi foreste tutelate da secoli. Il Platform Frame è un sistema costruttivo ingegnosissimo che appoggia i piani successivi uno sull’altro senza la necessità di pilastri. Lo portarono negli Stati Uniti i primi coloni europei, soprattutto inglesi. L’esemplare più antico è la Casa di Jonathan Fairbanks (1636), a Dedham, nel Massachussets. Fatto di pareti a telaio controventato inchiodato, costruite a terra in loco. Rivestite all’esterno con fasciame orizzontale scalare detto a embrice (1759), tinteggiato mentre l’interno era rivestito anticamente con pannelli di legno squadrato oggi di compensato multistrato affiancati oppure a listelli intonacati e dipinti. Finestre con  apertura Pavimento a liste di legno sfalsate. Tetto a spiovente, coperto con scandole o con lamiera ondulata. Utilizzo della muratura in mattoni pieni esclusivamente per i camini. La struttura leggera è resa necessaria dai frequenti tornado che colpiscono le terre americane e obbligano a continui cambiamenti e ricostruzioni. 

Un altro edificio nel film in legno, strutturalmente differente, è la casa su alte palafitte — sotto di essa tra i pali ci sono le stalle aperte per ricoverare gli animali — con una scala esterna, ampie finestre e un portico a tempietto con l’insegna grafica di un buscadero che doma il toro. Di certo non Toro Seduto.

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