Koyaanisqatsi: Life Out of Balance (1982) regia di Godfrey Reggio
Koyaanisqatsi: Life Out of Balance (1982) regia di Godfrey Reggio, presentato da Francis Ford Coppola, è un film musicale sperimentale, non un documentario come alcuni dicono, dove l’interprete principale è la natura costruita, sono le concrezioni umane: le architetture e il paesaggio urbano infrastrutturale. Che, diegetici, appaiono fotogramma dopo fotogramma, a volte rallentato e a volte accelerato, al suono della musica post-minimalista di Philip Glass. Un film bellissimo.
Il titolo Koyaanisqatsi in lingua amerindia Hopi — nel film gli Hopi non si vedono — significa “vita tumultuosa/squilibrata”. La pellicola è basata su una profezia, in merito alla fine del mondo, tramandata dalla popolazione pellerossa Hopi che vive in Arizona lungo il Rio Grande — all’interno della grande nazione Navajo — discendente degli antichi Anasazi (2/1500 a.C. – 1300 d.C.). Popolazioni ancestrali di religione politeista, sciamano animista, (calate dal nord America a causa delle glaciazioni e estintisi per via della siccità causata dal riscaldamento globale). Gli Anasazi erano dediti all’agricoltura e alla costruzione di monumentali edifici in pietra, oltre a complessi sistemi infrastrutturali per l’irrigazione — costituiti da canali collegati a grandi cisterne per la raccolta delle acque — e da strade, larghe 10 metri, che univano i vari centri abitati (se ne sono rilevate ad oggi circa 300 chilometri). Culturalmente affini agli Atridi Micenei del Peloponneso.
Koyaanisqatsi: Life Out of Balance, sei anni di riprese per un collage che racconta la storia della civiltà umana, dall’arte rupestre nella natura incontaminata, alle grandi città di oggi, all’ormai invasivo distopico mondo “artificiale” creato dall’uomo. Scene aeree mozzafiato di edifici razionalisti si alternano a enormi grattacieli illuminati di notte, infrastrutture ove corrono veicoli d’ogni genere, nel cielo solcato da aerei e missili, esplosioni nucleari, un Saturn V — quello che ha portato gli astronauti sulla luna — forse la “casa/macchina” più potente creata dall’uomo, esseri umani che procedono all’indietro, per strada nelle città, al lavoro nelle fabbriche per tornare alle origini in chiusa del film: i petroglifi Anasazi sui quali la pellicola apre, ove le figure sono chiuse in sarcofagi (di tipo egizio) o forse in moduli spaziali. Koyaanisqatsi è primo della Trilogia Qatsi: Powaqqatasi (1988) e Noqoyqatasi (2002) con la fotografia di Ron Fricke. Un lungometraggio di denuncia della situazione ambientale americana, anticipatore dei temi ecologisti oggi in gran voga: sull’inquinamento terraqueo, sull’eccesiva produzione di beni di consumo industriali, dei rifiuti non più smaltibili, della distruzione di boschi e di territori, del caos soffocante delle metropoli che vedono l’uomo con le sue attività, consumatore, annientatore, nemico del mondo come se fosse a lui alieno ovvero non parte fondamentale dello stesso. E cosa dire delle costruzioni degli altri esseri — faccio solo degli esempi — dei parallelepipedi, dagli spigoli linearmente perfetti, creati dalle formiche rosse africane alti fino a 5 metri? delle barriere coralline dell’oceano pacifico o dei favi delle api o delle dighe dei castori? Architetture create da esseri alieni come noi umani? o da esseri coscienti e parti inalienabili del sistema terra?
Ma è proprio così? L’uomo a questo stato dei lavori è arrivato veramente per sua volontà? Oppure tutto è il frutto di un meccanismo automatico pensiero, non reale, non costante, in continua elaborazione trasformazione incontrollabile dai tempi dei tempi, una catena neuronale universale, essere-spazio-tempo, che procede autonomamente e permea di nomi e forme? Un “film” che appare e scompare, nei tre stati di sonno profondo, sogno di sogno, sogno di veglia nell’arco di una vita? Dov’è tutta questa materia che l’uomo trasforma, inquina, distrugge? Esiste realmente? Da quale primo pensiero principio ontologico si crea? In chi appare questo principio pensiero? Non si può sapere.
Principio creatore negato dalla cultura positivista scientista materialista solo perché non esperito con i sensi. Al contrario la filosofia Indù Vedanta codificata da Gaudapāda (VI sec.) e Śankara (788-820) afferma che l’essenza dell’universo è pensiero sogno che — dimostrandolo attraverso l’indagine investigante e discriminante scientifico razionale — si svolge come un film proiettato sullo schermo della coscienza di essere, mente universale, nel quale non si può agire con libero arbitrio — essendo noi attori e spettatori — per modificarne i contenuti o le relazioni di causa e effetto. Per questo, secondo i filosofi indiani, non ha senso parlare di creazione e distruzione da parte dell’uomo. L’uomo è un interprete proiettato (nel film) che non ha colpe.
Philip Glass, autore con forti basi filosofiche tradizionali orientali, è un gigante della musica contemporanea, insieme a due suoi grandi colleghi amici Steve Reich (The Desert Music,1984) e John Gibson (1940-2020) purtroppo recentemente scomparso. Glass cultore dei film della Nouvelle vague, estimatore dei registi Jean-Luc Godard e Francois Truffaut. Oltre alla Trilogia Qatsi il musicista ha creato colonne sonore per 33 film, di cui tre nominations al Golden Globe: Kundun (1997) The Hours (2002) Notes on a Scandal (2006). A lui sono stati dedicati sei documentari biografici. Un Musician da ascoltare tutto.
Le architetture monumentali Anasazi nel Colorado — tra l’altro fotografate, mirabilmente documentate, dal grande paesaggista Ansel Adams (1902-1984) appartenente al gruppo “f/64” — in particolare i Pueblos inseriti all’interno di spaccature in pareti rocciose verticali affaccianti sulla pianura o le Case Kiva (Home Riconada) con le loro tipologie costruttive a pianta circolare (fino a 20 metri di diametro), interrate per 5 metri, in pietra con coperture in legno con al centro un oculum, — edificate forse a scopo religioso iniziatico tradizionale — e le alte torri di pianta quadrata, sono le antiche architetture difensive più stupefacenti che — insieme ai petroglifi, agli eleganti vasi con figure e alle piccole sculture — si possano trovare nell’America del nord. Da cui sicuramente gli Aztechi Atlán Mexica hanno preso l’arte del costruire. Proprio quegli edifici a cui si è ispirato Wright creando i fondamentali dell’architettura Organica contemporanea. Una visione Domus-centrica che dall’uomo primitivo stanziale procede fino ad oggi senza soluzione di continuità.
I Pueblos Hopi in pietra, con intonaci di fango seccato, posti in pianura, sono aggregati di moduli a pianta quadrata impilati sfalsati a formare condomini di notevoli altezze, di cinque piani, staticamente perfetti. Case fortezza per difendersi dai predoni Navajo e Apache. Gli Hopi, popolazioni pacifiche, tolte le scalette in legno cercavano di difendersi bersagliando dall’alto i loro nemici ma spesso soccombevano gli assalitori. I quali riuscivano a saccheggiare parte del raccolto, uccidere diversi uomini, a rapire donne e bambini da usare poi come schiavi. Una vita di difficoltà estreme proprio protetta dal pueblo quasi impossibile, data la sua complessità architettonica, da conquistare completamente.
Per chi volesse approfondire la figura di Philip Glass:
Music with Roots in the Aether: Opera for Television (1976). Parte 2: Philip Glass. Prodotto e diretto da Robert Ashley;
Philip Glass, from Four American Composers (1983) diretto da Peter Greenawey;
A Composer’s Notes: Philip Glass and the Making of an Opera (1985) diretto da Michael Blackwood;
Einstein on the Beach: The Changing Image of Opera (1986) diretto da Mark Obenhaus;
Looking Glass (2005) diretto da Éric Darmon;
Glass: A portrait of Philip in Twelve Parts (2007) diretto da Scott Hicks.