Peter Greenaway è un regista che non amo particolarmente, però Il ventre dell’architetto del 1987 è un film importante da ricordare: è la storia di un artista a confronto con la perfezione dell’architettura del mondo classico e neoclassico romano: una tragedia vissuta dal protagonista, l’architetto americano Stourley Kracklite, che arriva a Roma per allestire una mostra su Étienne-Luis Boullée (1728-1799) di cui è il curatore.

Ne Il ventre dell’architetto Peter Greenaway, con l’aiuto dell’architetto Costantino Dardi, sceglie location e scenografie eccezionali, eccentriche, che rimandano alla retorica monumentale visionaria classica in architettura, di cui Boullée, nel suo tempo, è stato un innovatore, estimatore e propugnatore teorico. Villa Adriana a Tivoli del II sec. d.C., i Musei capitolini (1704), il Monumento a Vittorio Emanuele II (1882-1901) di piazza Venezia a Roma di Giuseppe Sacconi. Lo stesso allestimento della mostra su Boullée rappresentata nel film e ideata da Dardi, va nella direzione di esaltare la magnificenza civile del periodo neoclassico.

Proprio dell’architetto Costantino Dardi, scomparso nel 1991 a Tivoli, tengo a ricordare alcune opere e progetti su edifici antichi e recenti: il restauro delle Mura Aureliane a Roma e di Palazzo Massimo a Roma, il restauro e il riuso della Rocca Abornaziana di Spoleto, la ristrutturazione di Porta San Paolo, del margine urbano dell’area dei Fori Imperiali a Roma, della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, dei Musei capitolini ove sono ambientate alcune scene del film, dell’ex Sala Borsa di Bologna e, infine, del Palazzo delle Esposizioni a Roma.

Il ventre dell’architetto è un film tragico, shakespeariano, a volte “comico”, totalmente estetizzante, un racconto faticoso in cui domina la follìa dell’architetto, la sua impotenza di fronte alla grandezza del passato; una trama che porta Stourley, malato di cancro, tradito dalla moglie in avanzata gravidanza e quasi partoriente, il cui amante gli sottrae il lavoro, al delirio e al suicidio gettandosi dal Vittoriano.

L’impossibilità di confrontarsi con la creatività dei grandi interpreti e costruttori del passato, del mondo greco-romano, del Rinascimento? Certo è che se vado indietro nei secoli torno con la cinepresa alla classicità, all’equilibrio architettonico e urbanistico del passato, percorro il corridoio dell’architettura teorica disegnata-dipinta di Boullée e di seguito attraverso, non so come, la scenografia della piazza dipinta in cui si svolge lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, salgo le scale del tempio, e mi trovo di fronte al Pantheon di Apollodoro, e lì mi fermo. Voltando l’obiettivo mi accorgo di essere a Torino tra le colonne della Gran Madre di Dio del Bonsignore, e traguardo lo spazio ritualmente costruito intorno al Monumento a Vittorio Emanuele I, la prospettiva, lo splendido Ponte Vittorio Emanuele I, la grande Piazza Vittorio Veneto e l’asse di Via Po progettato da Amedeo di Castellamonte con al fondo il Monumento al Duca di Aosta e l’Antico Castello … mi prende un senso d’impotenza, d’impossibilità ad agire, di vertigine che mi attira verso il precipizio del meglio non fare nulla visto che, pur non nella totale eticità, non ho la capacità, di imitare, di riproporre con la stessa qualità plastica, tecnica, culturale, morale di quelle epoche.

Quando guardo il contesto architettonico in cui si svolgono le scene del film Il ventre dell’architetto e rifletto sul rifiuto, sull’impossibilità di Boullée di realizzare i suoi progetti – del Cenotafio di Newton gli bastarono i disegni e i modelli in legno – capisco che la contemporaneità, pur nella grandezza delle opere realizzate, (penso a Wrigth e al suo Hotel Imperiale di Tokio), ha aggiunto molto poco alle meravigliose antiche città del passato.

Forse il significato dell’opera di Greenaway sta in questa banale considerazione. Greenaway è un’artista, è un architetto che ha realizzato, prima di diventare regista di lungometraggi, decine di cortometraggi sulle arti e l’architettura; a lui interessa il rapporto dell’artista con la sua opera e il legame che c’è tra essa e il passato. Rapporto che quando viene a mancare crea un’arte fine a sé stessa, inutile, perché vuota di conoscenza.

Se a Greenaway bisogna rimproverare qualcosa nel film è la mancanza nelle scene di Dei visibili: Athena, Apollo, Era, chiunque possa ispirare e proteggere l’artista nel realizzare la grande opera. La loro mancata presenza rende il film ambiguo. Sul film la critica ha dato tante interpretazioni. Lo hanno addirittura analizzato freudianamente, riportando tutto alla sessualità repressa di Stourley Kracklite, che sciocchezze! Anche se dietro le riprese c’è un Deus ex machina, proprio l’architetto Dardi, avrei osato di più, reso il racconto teatralmente tragico-greco fino in fondo, di facile comprensione, per niente enigmatico. Sarebbe bastata la presenza di una civetta, come quella che compare in Blade Runner.

Photo di Alessandro Stigliani su Unsplash.com