Tra i film più interessanti degli ultimi 20 anni c’è Lost in translation (2003) di Sofia Coppola, una cineasta che ha rinnovato il modo di fare cinema. Film ove la consequenzialità degli eventi e la trama, i dialoghi, sembrano superflui. Un realismo/finzione del vivere quotidiano, dove tutto avviene nella più totale consequenzialità, la storia non la si percepisce (non c’è), la si ricostruisce a memoria dopo che si è visto il film, ricreando ognuno la propria. Le sequenze del film si basano sull’estetica del vivere per vivere, sull’aspetto interiore, sulla solitudine dei due personaggi, del loro essere nomadi, estranei al contesto in cui stanno vivendo. Un cinema molto europeo “forse” dal profumo neorealista/nuvelvaghiano: mi vengono in mente Stromboli (1950) di Roberto Rossellini e Due tre cose che so di lei (1966) di Jean-Luc Godard.

Ho scelto Lost in translation per parlare, non solo di un bel film, ma anche dell’architetto Kenzõ Tange e della cultura dell’abitare giapponese. Della casa tradizionale e di come i giapponesi dalla metà ‘800 in poi si siano occidentalizzati senza rinunciare alle loro tradizioni. Le ragioni sono ben descritte nel film L’ultimo samurai (2003) di Edward Zwick.

Mi piace molto l’idea di contaminazione, occidente e oriente, nel cinema e nell’architettura. Kenzõ Tange e Akhira Kurosawa sono stati due artisti opposti nei contenuti estetici ma fortemente condizionati dalla cultura occidentale, influenzandola a loro volta.

Nell’aristocratico Kurosawa la narrazione riguarda sempre il Giappone, ambienta gran parte dei suoi film epici nel periodo feudale dell’impero (circa tra il XIII il XVII sec.) però utilizzando la codificata tecnica cinematografica hollywoodiana, americana, la quintessenza del cinema classico: storie lineari, drammatiche, piacevoli, gratificanti, con inquadrature gerarchiche e complesse scenografie ove il film è costruito sul montaggio di tanti frammenti girati non consequenzialmente, da punti di vista diversi e in luoghi diversi, un modo diegetico dove tutto è finzione.

L’architetto Tange, al contrario di Kurosawa, molto influenzato da Le Corbusier, nei suoi palazzi non esprime nulla della raffinata estetica del design e dell’architettura tradizionale giapponese, a parte in una piccola costruzione: Casa Tange del 1953 – ove, nel luogo in cui abita, unisce la struttura portante in cemento armato a vista alle pareti di legno e carta con i tatami ai pavimenti della tipica dimora Machiya – nulla di più di una rivisitazione, nella quale, comunque, domina l’architettura modernista, l’International Style occidentale. Un marchio, il suo, di eccezionale qualità architettonica, che però non parla giapponese ma il meticcio “Cityspeak”.

Anche Yasujirō Ozu, il più giapponese dei registi giapponesi, grande ammiratore di Ernst Lubitsch, fu sedotto dal cinema americano. Purtroppo di lui in occidente si è visto poco, Fiori d’equinozio (1958) e Viaggio a Tokio (1953). Il suo successo non uscì mai dai confini del suo paese, se non per merito di incalliti cinefili. Negli anni ‘70 del novecento, in Italia, in collaborazione con l’ambasciata giapponese di Roma, proiettammo al Movie Club di Torino un ciclo di suoi lungometraggi sottotitolati appositamente per l’occasione. Però chi lo fece conoscere al mondo fu Wim Wenders con il documentario Tokio-Ga (1985).

La Coppola alterna sapientemente scene che si svolgono nella totale contemporaneità architettonica dell’hotel e del quartiere finanziario e del divertimento di Shinjuku a scene girate nelle antiche realtà storiche di Tokio e Kyoto.

Il film Lost in translation si svolge proprio nelle alte torri direzionali e amministrative disegnate da Kenzõ Tange nel 1994. È nella Shinjuku Park Tower che i due interpreti Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson) si conoscono e vagano insonni nei corridoi con alle pareti i dipinti ossessivi dell’iperrealista John Kacere. L’edificio di 52 piani è costituito da tre torri di altezza digradante. I grattacieli di Nishi-Shinjuku formano uno skyline urbano a forte caratterizzazione in grado di esprimere l’alto potere economico del Giappone degli anni ottanta e novanta.

In esterno, prima Charlotte visita il tempio Jugan-ji a Shinjuku. Poi prende lo shinkansen (treno veloce) per Kyoto, dove visita il santuario Heian e il tempio Zen Nanzenji della setta Rinzai. Il sito in cui sorge Nanzenji è considerato di estrema importanza storica nazionale, i giardini sono tra i luoghi più belli del Giappone. In origine l’edificio era la dimora dell’imperatore Kameyama.

Comunque, se si vogliono visitare le location del film nelle torri di Tange, importante è sapere che i protagonisti, Bob e Charlotte, alloggiano nella Park Room o Park Suite, e la scena in cui si incontrano è stata girata nel New York bar. Il ristorante dove Bob si lascia sedurre da una cantante si chiama Kozue.

Alcune informazioni sull’architettura di Tange. La Shinjuku Park Tower è composta da tre torri: la torre S, che è di 235 m. di altezza, con 52 piani, la torre C che è alta 209 m. con 47 piani e la torre N, che è alta 182 m., con 41 piani. Al piano sotterraneo (B1F) vi sono negozi al dettaglio e ristoranti, al piano primo c’è la Showroom della Società del Gas di Shinjuku, dal piano 3 al 7 negozi, i piani dal numero 9 al 37 sono occupati da uffici e solo dal 39° al 52° vi è il lussuoso hotel Park Hyatt di Tokyo dove è ambientato il film.

Nella foto la Shinjuku Park Tower progetto di Kenzo Tange – christoph-theisinger su unsplash.com