L’inizio di un decennio si presta a celebrare ogni genere di ricorrenze. Per gli architetti, una di queste è il sessantennale della fondazione di Brasilia, che cade appunto nel 2020 e verrà ricordato con un programma di iniziative che coinvolgono soprattutto il paese di cui è la capitale.
La prima idea di spostarla da Rio de Janeiro sembra si debba al cartografo e geografo italiano Francesco Tosi Colombina (se ne fa cenno nel Trattato di Madrid del 1750), mentre è nel 1822 che ne viene fatto per la prima volta il nome. Nel 1821 infatti, qualche mese prima dell’indipendenza, un uomo di stato brasiliano, Bonifacio de Andrade Silva, si propone di raggiungere un maggior equilibrio territoriale occupando la “frontiera” dell’enorme spazio conquistato. Impegno inserito nella maggior parte delle costituzioni brasiliane, specialmente in quella del 1891 – seguita alla proclamazione della Repubblica del 1889 – che si poneva come obiettivo positivista un regime “d’ordine e progresso”. E venne ufficialmente designata un’area centrale dove costruire dal nulla la nuova capitale.
L’idea di trasferire il centro politico e amministrativo all’interno del paese quindi non è nuova. E, nella seconda metà del novecento, si concretizza: Brasilia viene inaugurata il 21 aprile 1960 e diventa immediatamente la nuova capitale federale del Brasile. Un giorno scelto non a caso, per affermare ulteriormente l’importanza della scelta: era quello della nascita di Roma e della morte (1792) di Joaquim José da Silva Xavier, meglio noto come Tiradentes, eroe dell’indipendenza brasiliana giustiziato dai portoghesi.
Ma Brasilia è stata anche un sogno secolare. E, come spesso accade in Brasile, l’idea si afferma a poco a poco in maniera meno razionale: pochi da noi ma molti in Brasile ricordano che a rafforzarla fu una profezia di Don Bosco, il fondatore dei Salesiani canonizzato nel 1934, che nel 1883 aveva “visto” la creazione di una nuova civiltà e di una nuova città ai bordi di un lago, fra il 15° ed il 20° parallelo sud.
L’Italia quindi fa parte non marginalmente del mito fondante della capitale: sulla porta del Santuario di Brasilia dedicato al missionario è raffigurato il sogno che fece. Luigi Colle, un giovane, figlio d’un conte, morto l’anno precedente, gli fece esplorare nel sonno, a volo d’angelo, tutto il Sud America fino alla Patagonia. Quando vide “scorrere il latte e il miele” gli indicò il luogo ove sarebbe sorta una nuova città del Brasile, appunto a quelle latitudini. E il sogno di don Bosco venne diffuso nel mondo. Quel luogo fu identificato, il secolo successivo, nel deserto verde del Planalto Central, a 1.000 metri d’altezza e a 900 chilometri da Rio de Janeiro.
Ma come si arrivò a dare corso a questa straordinaria impresa? Dopo la seconda guerra mondiale la Repubblica brasiliana, sempre oscillante tra democrazia e dittatura, era andata incontro ad una grave crisi politica, economica e sociale, drammaticamente conclusasi nel 1954 con il suicidio del presidente Getulio Vargas. Ma il progetto di una nuova capitale nell’interno del Brasile era stato rilanciato nel 1946 proprio dal regime di Vargas.
Juscelino Kubitschek, eletto presidente nel 1956, riprese ben presto l’idea, come promessa di sviluppo industriale – grazie alla conquista dell’Amazzonia, ai grandi lavori di costruzione di dighe idroelettriche, di nuove città – prospettando un nuovo Brasile che avrebbe realizzato il suo destino di “paese del futuro”. Il suo motto era «Cinquant’anni di progresso economico e sociale nell’arco di cinque anni».
E così avvenne. In quarantuno mesi fu costruita la parte essenziale della città, dando forma a un distretto federale sull’esempio di Washington, impiegando ingenti capitali presi a prestito e migliaia di contadini poveri del nordest, che lavorarono giorno e notte per costruirla. Successivamente avrebbero popolato, purtroppo senza più una adeguata pianificazione, i dintorni del centro. Ma per Kubischek, il presidente brasiliano più amato, Brasilia doveva rappresentare il sogno degli utopisti divenuto realtà. La “città per antonomasia, l’urbanistica realizzata” sul nulla degli altipiani.
Dopo la sua elezione, affidò al suo vecchio amico Oscar Niemeyer la direzione per la parte architettonica, iniziando dal progetto del nuovo palazzo presidenziale (1956-1958). Kubitschek e Niemeyer si erano conosciuti già negli anni ’40, quando il primo era governatore di Belo Horizonte e aveva affidato all’architetto una serie di progetti nell’area di Pampulha.
Nel 1956 iniziò anche il processo che alla fine portò a scegliere il piano generale dell’urbanista Lucio Costa per Brasilia, la città simbolo per eccellenza del 20° secolo. Venne progettata con l’ambizione di creare una nuova capitale basata sui principi del socialismo che animavano Kubitschek e con il respiro di una metropoli moderna d’avanguardia, a misura dell’automobile. Fu costituito l’ente per la costruzione della città, la Novacap (“Nuova agenzia di urbanizzazione della capitale”) con Niemeyer che, come principale architetto, negli anni successivi progettò e costruì quasi tutti i più importanti edifici.
Kubitschek lasciò il potere nel 1961: Brasilia era ormai in gran parte edificata, ma il Brasile non era molto cambiato e le ineguaglianze sociali ancora acute. Il paese aveva conseguito grandi progressi materiali durante il suo mandato, ma a un prezzo elevato: il costo della vita e il volume di valuta in circolazione erano triplicati tra il 1956 e il 1961, mentre il grande debito estero del Brasile era quasi raddoppiato.
Nel 1964, con un colpo di stato, i militari assunsero il potere e lo conservarono quasi vent’anni (il cosiddetto “regime dei gorilla”). Ironia della sorte, Kubitschek e il “comunista” Niemeyer furono esiliati, Lucio Costa allontanato dal progetto.
Kubitschek intendeva promuovere la nuova capitale per accelerare l’insediamento e lo sviluppo del vasto interno del Brasile, ma il prezzo dei suoi ambiziosi sforzi fu anche la crescita di un’inflazione persistente e rapida, problema aggravato dalla necessità di impiegare ingenti risorse per sostenere la regione nord-orientale, afflitta dalla siccità. Eletto al Senato nel 1962, Kubitschek fu nominato presidente dal Partito socialdemocratico nel 1964 e poi cacciato. Rientrò in Brasile nel 1967 per diventare banchiere ma morì dieci anni dopo in un incidente automobilistico, probabilmente provocato per ucciderlo.
Oltre al presidente, i protagonisti indiscussi di questa avventura – l’urbanista Lucio Costa, l’architetto Oscar Niemeyer e il pittore paesaggista Roberto Burle Max – vollero fare con questa straordinaria esperienza un “discorso architettonico” rivoluzionario sul potere e la società.
Segno dei tempi, la città è stata costruita quando il petrolio era abbondante e poco costoso. Nei suoi vasti spazi occorre spostarsi esclusivamente in autovettura. Ma i prezzi degli affitti spinsero i meno abbienti verso una serie di insediamenti di corona che compongono una enorme agglomerazione. I ceti più ricchi abitano i quartieri residenziali, ovvero il cuore del “piano pilota” delle supercuadras (quartieri), una combinazione elitaria di abitazioni, luoghi di incontro e natura.
Già a partire dall’inizio della costruzione di Brasilia nacquero anche le prime città satellite, come Ceilândia o Taguatinga, distanti decine di chilometri dal centro del Distretto Federale; una volta terminata la prima fase, con lo scioglimento del pool di architetti e la fine del mandato del presidente Kubitschek, emersero le difficoltà, che confliggevano con l’idealismo urbanistico: la mancanza di colleganza e di un’identità comune dei suoi abitanti, provenienti da varie zone del Brasile, la notevole distanza dai centri di approvvigionamento (che produsse l’aumento dei costi) e infine il sovrappopolamento, che condusse ad uno sviluppo urbano successivo disordinato e deviante rispetto alle linee guida impostate da Costa e Niemeyer.
L’aumento di popolazione prosegue tuttora e già al compimento dei suoi 50 anni Brasilia contava 2.570.000 abitanti, con le stime che parlano di 2.850.000 abitanti (al 2015) per quanto riguarda la città vera e propria e 4.500.000 abitanti (al 2017) considerandone tutta la conurbazione. Di fatto, è ormai la quarta città del Paese dopo São Paulo, Rio de Janeiro e Salvador, che sarà probabilmente superata nel prossimo censimento.
Oggi Brasilia ha 60 anni: è una città vera, ma anche un centro attrattivo con molte “gemmazioni” non pianificate, distribuite disomogeneamente attorno al nucleo originario. La pressione di queste aree di nuova urbanizzazione impoverisce l’innovativo disegno iniziale. Lascia l’impressione di visitare una città futurista, inabitata e senza vita la cui struttura caratteristica è percepibile ancora oggi solo in volo. Colpiscono in particolare le imponenti dimensioni spaziali della pianta e le distanze enormi tra i vari edifici, con grandi vuoti.
La realizzazione di Brasilia, perciò, ha dato lo spunto una serie di critiche a livello internazionale che hanno mantenuto acceso il dibattito sulla nuova capitale fino ai giorni nostri. Interessante è notare come le critiche non coinvolgano soltanto gli architetti e l’aspetto architettonico ma anche intellettuali di varia formazione e questioni di carattere sociale, politico ed economico.
Lo storico Bruno Zevi fu tra i primi a esprimere il suo dissenso: è «città kafkiana», scrisse nel 1958 e «risulterà forse splendida, ma psicologicamente instabile, darà ai funzionari e agli abitanti l’impercettibile sensazione di “dover partire”». E appena un anno dopo il termine dei lavori di costruzione (nel 1961), la giornalista americana Jane Jacobs sferrò un duro attacco al Movimento Moderno e ai principi su cui si fondava esplicitamente Brasilia, come frutto del dialogo continuo tra Costa, Niemeyer e Le Corbusier.
Anche la filosofa Simone de Beauvoir, che la visitò appena in augurata (1961) ne deprecava «l’aria di annoiata eleganza, le strade che non portano da nessuna parte», mentre nel 1964, pochi anni dopo la sua ultimazione, David Snyder, docente di geografia a Yale, disapprovava la rigidità e la staticità dell’impianto urbano di Costa.
Il rischio – sottolineava Kenneth Frampton nel 1980, ponendo l’accento sulle diseguaglianze sociali che continuavano a manifestarsi in Brasilia nonostante la volontà di Kubitschek di creare una città fondata sui principi di uguaglianza – è quello «della formazione di periferie urbane dominate dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo, creando uno spazio urbano fortemente disomogeneo e disordinato».
Analoghe le osservazioni degli architetti Roberto Segre e Sam Miller che più di recente, nei rispettivi saggi “Arquitectura brasileira contemporanea” del 2003 e “Brasilia: living in the shadow of idea” del 2004, sostengono che è ingenuo pensare che le diseguaglianze di ceto possano essere risolte semplicemente forzando la coabitazione di gruppi sociali del tutto differenti.
Per altri versi era stato Paul Goldberger, critico dell’architettura su New Yorker e Vanity Fair, ad affermare (1999) che «Niemeyer è ormai fuori del tempo», pur ammettendo che «l’architettura moderna non può fare città, ma può fare alcuni meravigliosi edifici». Interessante, poi, è anche la diversa, seppur critica, la lettura della storica dell’architettura Valerie Fraser, che sottolineava (2002) «l’ambigua tendenza, da parte del governo brasiliano, a rinnegare e, al tempo stesso, abbracciare il passato».
Gianni Riotta nell’articolo “L’amore per le curve e l’odio per gli angoli” (La Stampa del 7.12 .2012), in occasione della scomparsa di Niemeyer, precisa però che il Novecento ne riconobbe la forza, seppur in ritardo, citando Frank Gehry: «Niemeyer rimase a lungo marginale … lavorava lontano, non lo capivamo» e Zaha Hadid: «La generazione dopo il 1968 era stufa della mentalità del Modernismo: viali enormi, da parate militari … senza capire che aveva una mentalità differente».
Solo un architetto e storico dell’architettura come Leonardo Benevolo, mentre in maggioranza gli osservatori ponevano l’accento sulle debolezze del progetto, seppe esprimere (nel 1986) un giudizio prevalentemente positivo, esaltando la freschezza dell’architettura di Brasilia e «l’intenso rapporto che vi intercorre tra l’impianto generale e le singole parti del nuovo spazio urbano».
In conclusione, Brasilia viene oggi considerata un grande sogno dell’architettura e dell’urbanistica moderna, realizzato ma anche deludente. Un’opinione diffusa che non ha impedito a chi il sogno trasmise ai brasiliani, don Bosco, di essere eletto patrono e festeggiato l’ultima domenica di agosto, in uno spettacolare santuario a lui dedicato, inondato di luce blu e realizzato dall’allievo di Niemeyer, Carlos Alberto Naves.
La Cattedrale di Brasilia – foto di Fred Schinke su Flickr