Alla figura di Bruno Zevi è stata spesso associata la definizione di “critico militante”. Mi sono chiesto più volte distrattamente cosa si intendesse con questa espressione, accontentandomi alla fine di un significato intuitivo.

Questa volta, ho voluto approfondire alla luce di definizioni ben più autorevoli : «Critici militanti [], i critici che non rimangono estranei alla vita letteraria o artistica del loro tempo, ma s’impegnano attivamente in essa, affiancando con i loro scritti l’opera creativa degli scrittori o degli artisti, dibattendo idee, entrando nel vivo delle polemiche, sia con recensioni di opere nuove, sia soprattutto con saggi e articoli in riviste e giornali» (dalla voce militante dell’enciclopedia Treccani); definizione che si contrappone – mi par di capire – a “critico accademico”, il cui agire è circoscritto entro i confini di un sodalizio culturale e istituzionale ristretto.

Pierluigi Panza (dal “Corriere della Sera” del 22 gennaio 2018) afferma: «Come Tafuri, [Zevi] maturò un’idea di critica militante: il critico è come un medico che individua le patologie di una società e indica i possibili indirizzi terapeutici. Anche mettendosi – nel caso del critico d’architettura – a lavorare sul tavolo da disegno del progettista.»

Verrebbe da aggiungere, con un pizzico di intenzionale forzatura, che militanza contenga in sé non solo l’affermazione di un proprio impegno attivo per l’avanzamento della conoscenza condivisa in un campo disciplinare specifico, ma più precisamente la convinzione che, intorno a quel campo di saperi – immerso in una rete di relazioni con l’intreccio dei poteri, delle risorse, degli interessi, degli ideali e delle aspirazioni, e con il clima culturale in genere – si incontrino sequenze coerenti di domande e di risposte rese necessarie proprio da quelle interferenze, dagli incontri, dagli scontri e a volte dai conflitti con altre realtà; domande e risposte che impongono di rendere più permeabili i confini tra i settori, per poter comprendere nel proprio agire i problemi che dal mondo intorno a noi emergono con inquietante urgenza.

Una radicale variazione di approccio questa della critica militante, che suggerisce un programmatico superamento di quell’impegno per l’affermazione di una disciplina i cui statuti si intendono orgogliosamente incontaminati dagli eventi contingenti, per approdare all’accettazione di quella contingenza come necessario stimolo al confronto e al divenire, come energia per crescere e innovare, affinché a quella disciplina, alla sua capacità di ascolto e di collaborazione, siano riconosciute attenzione e legittimazione sociale.

Insieme, in quel dibattito istituito tra la propria comunità intellettuale e il mondo, la militanza non è estranea alla necessità di inseguire una consapevole coerenza con sé stessi, che ci consenta di assegnare ruolo e ragione a quella combinazione unica di storie, condizioni, esperienze, convincimenti, che hanno forgiato la nostra personalità e, qualche volta, la nostra legittima ambizione a lasciare nel mondo una propria, riconoscibile, impronta.

In questo inizio del 2018 ricade il centenario della nascita di Bruno Zevi, critico di fama internazionale, che ha vigorosamente contribuito ad affermare una interpretazione radicalmente nuova dell’architettura – sprovincializzata da decenni di accademia paludata e formale –, animatore del dibattito all’interno e all’esterno del mondo disciplinare attraverso le sue generose prese di posizione e le sue intransigenti denunce. Su molti quotidiani sono comparse commemorazioni che ne esaltano il molteplice ed entusiastico impegno scientifico e culturale, e il suo sforzo rivolto ad accreditare il tema dell’Architettura e della Città anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, con le sue rubriche su periodici di ampia diffusione oltre che con riviste di settore, collane editoriali, saggi e monografie che hanno lasciato un segno sulla formazione degli architetti contemporanei.Anche IN/Arch, di cui è stato tra i fondatori nel 1959, nasce dalla felice intuizione che il discorso intorno all’architettura non è solo prerogativa degli architetti, ma di tutti coloro che contribuiscono con vari ruoli alle condizioni per la sua concreta realizzazione, e che solo attraverso lo sforzo congiunto di quei soggetti diversi sarà possibile uscire dalla segregazione di una cultura autonoma ed elitaria e dalla marginalità in cui è costretta dall’indifferenza dei politici.

Spesso, all’elogio dell’impegno scientifico e culturale di Bruno Zevi si accompagnano accenni ad una biografia sfaccettata, ricca e per qualche verso avventurosa: la discriminazione e l’esilio (nel 1938 fu costretto ad allontanarsi dall’Italia a causa delle Leggi Razziali), l’incontro con culture diverse (si laureò presso la Graduate School of Design della Harvard University, approfondì i suoi studi al RIBA), l’impegno in prima persona contro il totalitarismo (la collaborazione con le forze Alleate e la partecipazione alla Resistenza in Italia), la passione politica (il Partito d’Azione prima, il Partito Radicale poi), il sodalizio con personaggi chiave della nostra storia (i fratelli Rosselli, Adriano Olivetti, Ludovico Quaroni…), le clamorose e drastiche prese di posizione (la rinuncia all’insegnamento universitario nel 1979). È stato uno degli esponenti riconosciuti di quell’ebraismo laico che ha prodotto molte delle personalità più originali e inquiete della modernità, impegnate a trovare sbocco alla propria spiritualità attraverso il proprio operare nel mondo.

Ma, al di là della sua produzione culturale e scientifica, poco emerge da queste memorie – soprattutto alla attenzione dei non addetti ai lavori – di alcuni elementi che fanno di Bruno Zevi il protagonista di una rivisitazione dell’Architettura che ne mette in luce il suo valore collettivo: riconsiderando oggi il suo pensiero e la sua azione come presa di distanza da una Architettura intesa come pura esperienza contemplativa, ci pare di riconoscere in essa alcuni passaggi chiave per collocarla invece tra i campi dell’operare ai fini dei diritti e del progresso sociale. Zevi è stato, per temperamento e propria scelta motivata, un protagonista militante in diverse e complementari sfere di azione, nella architettura, nella politica, nella cultura, nel mondo ebraico, saldando insieme questi aspetti della propria personalità in un impegno unitario e coeso, fatto di idee e azioni profondamente radicate nella storia propria e in quella collettiva.