Nel 2019 si festeggia il centesimo anniversario della fondazione della Staatliches Bauhaus, più nota semplicemente come Bauhaus, una delle più importanti scuole superiori di istruzione tecnico-artistica della storia. Fondata nel 1919 a Weimar, in Germania, da Walter Gropius, secondo i criteri dell’allora nascente Movimento Moderno, era ispirata a un radicale ripensamento del binomio arte e tecnica applicato all’architettura e al design: l’arte in funzione della tecnica, in una visione più funzionale e razionale. Il termine “Bauhaus” era stato ideato dal fondatore della scuola e si riferiva alla parola “Bauhütte”, che nel medioevo indicava la loggia dei muratori.
La Germania, che ne fu la culla ma ne impose poi la forzata chiusura, ha preparato per l’avvenimento un ricchissimo programma di iniziative celebrative, a riparazione di una delle tante nefandezze compiute dal nazismo con la sua soppressione e la diaspora cui costrinse il suo eccezionale corpo docente. Tante anche quelle diffuse per il mondo, in qualche modo contrassegnate dallo stesso interrogativo: qual è l’eredità culturale e politica del Bauhaus?
«Il Bauhaus ha avuto un’enorme influenza sull’architettura e il design di tutto il XX secolo. Molti dei suoi protagonisti sfuggono al regime nazista emigrando negli Stati Uniti ove continuano per decenni a insegnare e a progettare. Pensiamo a Walter Gropius a Harvard e a Ludwig Mies van der Rohe a Chicago. Potremmo arrivare a sostenere che l’architettura americana contemporanea e una parte significativa del cosiddetto International Style non esisterebbero, o comunque sarebbero stati molto diversi, senza questo trapianto. E difatti, a partire dagli Stati Uniti alla fine degli anni settanta, il post-modernismo si auto-proclamerà un movimento di rivolta “autoctona” contro uno stile di derivazione tedesca» afferma Marco Romanelli, architetto, progettista e critico. Ma quella “americana” è solo la parte più conosciuta e più fascinosa dell’eredità architettonica Bauhaus, mentre meno nota è un’altra eredità del movimento, segnata dagli sviluppi dell’edilizia operaia, in particolare nella Germania dell’Est.
Si pensa spesso che il Bauhaus sia soprattutto sinonimo di moderno, ma questa interpretazione è estremamente riduttiva. Così come oggi il concetto di modernità è diventato vago – con contorni ideologicamente, geograficamente e temporalmente sempre più discussi e indefinibili – anche il Bauhaus ci appare come qualcosa di diverso. Non era chiuso o monolitico, era piuttosto un insieme di programmi in competizione e reattivi, quindi in continuo cambiamento. C’è stato il Bauhaus più conosciuto, quello che propugnava “arte e tecnologia: una nuova unità” per una produzione industriale di massa finalizzata a una nuova era delle macchine. Ma era una delle versioni di un’iniziativa partita nel tumultuoso primo dopoguerra come progetto utopistico e progressista, che cercava di intrecciare arti e mestieri di ispirazione medievale, paragonata da Lyonel Feininger a una “cattedrale del socialismo” (Aric Chen ne scrive su Abitare).
Mentre il primo Bauhaus era immerso in una spiritualità “liberatoria”, ben rappresentato da Johannes Itten, il teorico del colore, istruttore mistico e seguace del mazdeismo e dei suoi esercizi di respirazione di gruppo e digiuni. Era questo il vero il Bauhaus o era quello dell’espressionismo pittorico di Kandinsky, oppure quello dell’universalità tipografica del “Sans Serif” di Herbert Bayer, o ancora quello del funzionalismo scientifico di Hannes Meyer, che contrastò vigorosamente la deriva estetica che riteneva stesse pericolosamente orientando la scuola verso uno stile Bauhaus? D’altra parte non si impedì di indirizzare gli studenti verso la progettazione di prodotti commerciali, compresa – tra tutti gli oggetti non moderni ed estetici – una collezione di tappezzerie oggi diventata famosa.
È stato Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore del Bauhaus dopo il fondatore Walter Gropius e l’intermezzo di Hannes Meyer, ad affermare che «Il Bauhaus non era un’istituzione con un chiaro programma, ma un’idea». In altre parole il Bauhaus è stato un modello. E, a un secolo ormai dalla sua fondazione, continua, in effetti, a essere considerato «il più famoso esperimento nel campo della educazione artistica che si sia compiuto nell’epoca moderna» ci ricorda Alberto Cassani nel suo saggio “La ricezione del Bauhaus in Italia”. Il quale è dell’opinione che, nonostante la sua breve durata (meno di quindici anni), il Bauhaus si è caricato di un’aura mitica, dovuta soprattutto al libro-capolavoro di Giulio Carlo Argan “Walter Gropius e la Bauhaus” del 1951, testo non per nulla apprezzatissimo dallo stesso Gropius.
Cosa accade in Italia, dopo il libro di Argan, rispetto all’interpretazione del Bauhaus? Non molto fino ai cosiddetti «ruggenti» – almeno nel campo della storia dell’architettura – anni settanta, che furono quelli della «critica all’ideologia» nei confronti del Bauhaus, così come di tutto il cosiddetto «movimento moderno». Critica sviluppata con due introduzioni da Francesco Dal Co – il maggior studioso dell’ideologia del Bauhaus – al libro di Hans Maria Wingler “Das Bauhaus 1919-1933” e alla traduzione italiana del volume Marcel Franciscono “Walter Gropius and the creation of the Bauhaus in Weimar”. Nel 1973, d’altro canto, uscirono anche la traduzione italiana del testo di Barbara Miller Lane “Architecture and politics in Germany: 1918–1945” e il ben conosciuto “Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel”, del “filosofo dell’architettura” Massimo Cacciari.
Per tornare all’eredità del Bauhaus, come non riferirsi ad aspetti preminenti della vita contemporanea come la moda, la grafica, la pubblicità, il design, la fotografia, il teatro, per rintracciarvi l’impronta della sua enorme influenza?
Il manufatto artigianale stesso è oggi un fenomeno “di moda”, spesso peraltro dovuto ad uno pseudo-artigianato che rischia di svalutare l’importanza della produzione industriale. Il Bauhaus, al contrario, aveva cercato innanzitutto di metter in pratica il motto “imparare facendo”, alternando studio pratico e studio teorico e poi promuovendo l’unità tra arti pure e arti applicate nello stesso luogo, sotto l’egida dell’architettura: insegnando quindi con pari dignità pittura e falegnameria, scultura e tessitura, in una concezione realmente interdisciplinare.
Dalla tuta di David Bowie in “Ziggy Stardust” ai mobili da assemblare di Ikea che arredano i nostri salotti di casa: sono vari gli elementi dell’estetica del Bauhaus che sono entrati a far parte del nostro immaginario. “Al di là del movimento, è il modo di sperimentare con colori e geometrie del Bauhaus che tendiamo a riconoscere e apprezzare tutt’oggi, non da ultimo per il fatto di essere citato con regolarità nelle collezioni in passerella”, scrive Emily Chan su Vogue del 26 marzo 2019. Concetti chiave del Bauhaus erano il funzionalismo e la semplicità delle forme. “Il primo Bauhaus era di matrice espressionista. In seguito iniziò a sposare un’estetica sempre più funzionale, riducendo tutto al minimo essenziale”. Questi principi delle linee pulite hanno ispirato alcuni degli stilisti più influenti degli anni ’60, tra cui André Courrèges, Mary Quant e la minimalista per eccellenza, Jil Sander.
Il Bauhaus tedesco ha anche coltivato il design come innovazione orientata alla qualità e aperta al mondo, che soddisfa la domanda di un pubblico di acquirenti di opere multiple, complementi d’arredo ed oggetti attento a bellezza, artigianalità, razionalità e soddisfazione del bisogno. Il termine «design» indica, infatti, attività di ricerca-ideazione-progettazione, finalizzate alla realizzazione di un prodotto. Nel tempo, il concetto, l’approccio e gli strumenti dell’industrial design si sono articolati in svariati settori: la progettazione grafica e comunicazione visiva, l’auto, l’arredamento …
Anche il “graphic design” inteso come lo intendiamo oggi, prima del Bauhaus si potrebbe dire che non esistesse ancora. È infatti grazie alla scuola di Dessau che si è iniziato a comprendere che non basta riempire una pagina di immagini e testi, ma che anche la costruzione del suo layout gioca un ruolo centrale nell’impartire il messaggio finale. È alla sua scuola che dobbiamo il letterforms moderno e l’utilizzo del colore espressivo. Non avremmo il “Futura”, l’“Helvetica” e i “Sans serif” in generale senza il lavoro di Bayer (che nel 1928 lasciò il Bauhaus per diventare direttore artistico dell’ufficio berlinese di Vogue) sui font e chissà quando ci saremmo resi conto del potenziale della fotografia nella pubblicità senza il lavoro di Moholy-Nagy (Shape Beyond Graphic, 20 aprile 2016).
In questo senso è doveroso il richiamo dei legami del Bauhaus con il design e l’architettura italiani, soprattutto dei riflessi del primo sull’espressione contemporanea della sua identità creativa nel mondo. Ciò è stato possibile a partire dai padri del design e italiano: Magistretti, Viganò, Sottsass, Zanuso, Castiglioni …: nati nel decennio che seguì la Grande Guerra, attivi a Milano e dintorni dalla seconda metà degli anni quaranta del XX secolo e artefici di una traduzione italiana del Bauhaus tedesco.
Negli anni del “miracolo economico”, infatti, l’Italia ha conosciuto una serie di innovazioni che hanno cambiato la vita collettiva, coinvolgendo la dimensione domestica, la mobilità, le comunicazioni, la moda. È stata importatrice di idee e di tecnologia – per via del ritardo in cui si trovava alla fine del secondo conflitto mondiale – ma anche protagonista economico-industriale e culturale, avviando la straordinaria stagione del design italiano, strategico fattore di successo per la rinascita economico-intellettuale del Paese.
Come non rivolgere, per questo, un ringraziamento riconoscente anche al Bauhaus?
Nella foto il furgone itinerante per la celebrazione nel mondo del centenario