Devo esprimere al Consiglio Nazionale un giudizio molto positivo sul Congresso, partendo da una considerazione del tutto in controtendenza rispetto alla linea, spesso solo demagogica, dei nostri tempi e lo faccio ponendomi una domanda: è stato un congresso partecipativo? No per nulla. Bene, benissimo!
In realtà non mi era particolarmente piaciuta la modalità usata nella giornata preparatoria che avevo seguito a Torino, dove l’unico coinvolgimento dialogante è stato a porte chiuse con i consigli del Piemonte (peraltro consigli che, almeno qui a Torino, non hanno avuto successivamente la sensibilità di aprire una discussione pubblica con gli iscritti).
Mi sono ricreduto, invece, sulla fase congressuale di questi giorni che si è svolta con relazioni ex catedra, tutte di grande interesse e spesso di livello molto elevato che hanno espresso contenuti, esempi virtuosi, analisi, che non sarebbero potuti emergere con un modello differente. La fase finale con gli interventi programmati dal territorio lo ha dimostrato, qualcuno si è spinto fino a sindacare su alcune relazioni che aveva ascoltato, dimostrando però di non aver compreso né la singola relazione né ciò che dal congresso era emerso.
La sensazione è dunque che se il modello fosse stato diverso, probabilmente avrebbero prevalso i temi “corporativi”, le rivendicazioni del pur importantissimo quotidiano, isolando sempre di più la figura dell’architetto rispetto alle aspettative del Paese.
Se il modello non fosse stato quello, non ci sarebbero state “indicazioni di direzione” per gli architetti e soprattutto per le nostre rappresentanze, troppo spesso impegnate ad incoraggiare strade professionali che i dati, gli esempi, le buone pratiche descritte nel Congresso hanno smentito clamorosamente, dimostrando che ove l’essenza stessa della professione dell’architetto non si è banalizzata o “fattasi impresa”, la figura dell’architetto è ricercata e centrale nei processi di trasformazione urbana.
Al centro delle relazioni è emerso con forza il ruolo sociale della professione, impegnata nella traformazione economica e qualitativa delle città, ruolo che genera economia e lavoro non solo al microcosmo degli architetti, ma per tutti; un ruolo che al contempo genera un miglioramento sostanziale della qualità della vita, ancora una volta per tutti.
Una visione aperta dunque, con approcci e analisi differenti che tuttavia sono andate tutte nella stessa direzione: Jean-Pierre Charbonneau, Gil Penalosa, Giovanni Maria Flick, Mario Abis, molti altri … hanno portato esempi che impegnano gli architetti a ritrovare il loro ruolo; relazioni che hanno anche dimostrato che una domanda sociale diffusa per la competenza dell’architetto esiste, ma esiste per il ruolo e le capacità che l’architetto ha nel proprio bagaglio formativo e culturale, necessariamente diverso da altre professioni (nè peggiori, né migliori, semplicemente differenti) e sul quale non può che puntare se non vuole, avventurandosi su terreni di altri, essere disconosciuto e sopraffatto dalla realtà.
Sono emersi, infatti, con evidenza nello scorrere degli interventi, gli abbagli epocali che hanno costretto alla “regola del mercato” la professione, alla professione che “si fa impresa”, abbagli che ancora resistono in tecnocratiche posizioni di retroguardia che sviliscono le qualità di innovazione creativa della figura dell’architetto: lavoro sì, ma non qualunque lavoro e soprattutto non quello di altri. Un tema sul quale gli “architetti” sembrerebbero in questo tempo “minoranza” rispetto a coloro che, pur portandone il nome, percorrono altre strade. La realtà è differente, i secondi sono semplicemente più “rumorosi”, ma danneggiano tutti.
Dunque l’insieme di quanto emerso dal Congresso, chiamano l’architetto ad una pausa di riflessione, di ripensamento, perchè indicano un mondo che richiede le competenze che si immaginavano discunosciute e che quindi non deve abbandonare, perchè è solo attraverso quelle peculiarità che può riprendere la strada di una dignitosa e riconosciuta professionalità.
Nella conclusione della ricerca presentata da Abis c’è anche una sentenza chiara per gli organi di rappresentanza, che è auspicabile sia stata colta. C’è una richiesta dell’opinione pubblica – the common people li ha definiti Abis – di riduzione della difesa corporativa, e di un maggiore impegno nei processi di sviluppo economico delle città e di maggiore cultura dell’architettura. Solo così si sostiene stabilmente il futuro degli architetti: certo metterlo in atto non è cosa banale occorre, neanche a dirlo, un progetto, ma se è messo nella mani di chi sostiene con forza imprenditorialità e ingegnerizzazione della professione è difficile che si avvii a breve una nuova fase positiva, lo stallo attuale durerà ancora per lungo tempo.
Questa la mia prima personale impressione, credo che il Consiglio Nazionale abbia segnato una svolta significativa nella discussione sul ruolo e futuro dell’architetto e dell’architettura. Ora il problema è l’approfondimento e la diffusione, su questo fronte penso che IN/Arch Nazionale insieme con le Sezioni Regionali possa offrire un contributo significativo al dibattito ed alle iniziative che potranno seguire. Per ciò che mi riguarda le porte sono aperte ma non resterò in semplice attesa, porte aperte di altri penso ce ne saranno e andrò a cercarle.