Spesso, magari parlando di politica e politici, sentiamo ripetere che gli italiani si stufano di tutti, pochi anni di consensi e poi si cambia colore e personaggio.
Vogliamo sperare che in ambito culturale le cose vadano diversamente? Forse sì.
Sono quasi settanta anni che la figura di Alfredo d’Andrade viene ciclicamente riproposta, mostrando una straordinaria resilienza: nel 1957 Marziano Bernardi ne tracciò l’attività di pittore e conoscitore profondo dell’antico, in un volume che aveva potuto avvalersi della stretta collaborazione del figlio del Nostro, Ruy, e di conseguenza della possibilità di attingere al più sacro degli archivi, quello di famiglia.
Ma è solo dal 1980 che si poté indagare e restituire la sua attività di restauro e tutela grazie al ritrovamento dell’enorme archivio della Soprintendenza. Con una mostra e il suo catalogo è stata avviata – va detto a buon diritto – la ripresa definitiva di un interesse per il personaggio e la materia che dura fino a oggi.
Nato a Lisbona nel 1836, si trasferisce giovanissimo a Genova per seguire le attività commerciali della famiglia, ma qui entra in contatto con il mondo artistico e inizia a dedicarsi alla pittura.
Le esperienze genovesi, fondamentali nella formazione del d’Andrade, costituiscono un portato importante per la seconda parte della sua vita, quella in Piemonte. Qui i prodromi sono ancora una volta da pittore, ma la sua entrata nel gruppo di artisti e intellettuali che si raccolgono a Rivara, alla corte dei banchieri Ogliani, gli dà l’occasione per cimentarsi in un restauro architettonico, quello del loro castello, che viene stranamente riplasmato in forme tardo manieristiche.
Rivara rappresenta un altro topos nell’evoluzione della sua personalità: i forti legami di amicizia con Vittorio Avondo ed Ernesto Bertea, in particolare, lo ancorano al territorio, che indaga e documenta con un interesse sempre più spostato verso l’antico, verso i monumenti piccoli e grandi.
Un interesse allargato alle testimonianze tecniche e materiali, anche le più minute: le “cicogne” reggi grondaie, gli essiccatoi per il fieno, le serrature, il meccanismo di sollevamento dei ponti levatoi così come i sentieri delle Alpi. Tutto materiale che va a comporre un archivio straordinario di conoscenze che saranno fondamentali per il suo “passaggio di stato” da conservatore a restauratore.
Nel 1882, quando approda a Torino in uno dei suoi andirivieni tra Liguria e Piemonte, è pronto a dare la soluzione vincente per la partecipazione del Piemonte alla Esposizione Generale italiana prevista nel 1884 nell’antica capitale subalpina: mentre la Commissione incaricata di predisporre il progetto del padiglione piemontese proponeva di illustrare le arti decorative in Italia dal X al XVII secolo con la costruzione di diversi padiglioni fra loro collegati, d’Andrade propose invece di limitarsi ad illustrare un solo secolo ed una sola regione, elaborando con il senso pratico che gli era proprio la prima idea del villaggio medioevale piemontese quattrocentesco dominato da un castello, la Rocca.
Le conoscenze acquisite nei lunghi pellegrinaggi sul territorio piemontese attraverso i suoi disegni e appunti di viaggio consentono a d’Andrade di tracciare con sicurezza lo schema di un villaggio medioevale ideale, fantastico e colto – sottolineo colto – con ingresso dal ponte levatoio, cinto da mura e costellato di case e botteghe affacciate su una strada che conduce alla rocca svettante sulla collina, anche lei rigorosamente artificiale.
È il Borgo medioevale, un successo strepitoso, come si dice, “di critica e di pubblico”, che gli valse la fama di realizzatore infaticabile e affidabile. Il tempo non ci consente di restituire in tutta la sua complessità i pensieri che presiedettero a questa avventura: invito a rileggere il magnifico, esaustivo testo di Rosanna Maggio Serra nel volume del 1980, e i contributi di Carla Bartolozzi e Claudio Daprà sullo stesso tema.
La fama raggiunta dal d’Andrade gli procura un secondo prestigiosissimo quanto pericoloso incarico all’interno della Commissione ministeriale di cui facevano parte anche Vincenzo Promis come presidente, Vittorio Avondo e Federico Pastoris. Prestigioso perché stiamo parlando di Palazzo Madama, mille anni di storia civica e artistica mai indagati prima. Pericoloso perché il degrado della facciata del monumento sembrava aver imboccato la strada del non ritorno … Conosciamo il lieto fine di questa storia, con il palazzo che si presenta consolidato, restaurato e indagato con una profondità di studi che gli valse il riconoscimento del maitre à penser italiano in materia di restauri, Camillo Boito.
Metto in evidenza la “profondità di studi”, perché se si va oltre l’aspetto fenomenologico, eclatante dell’intervento, se si va oltre quel confronto “prima e dopo la cura”, allora si può valutare lo straordinario impegno del d’Andrade nelle indagini archivistiche, bibliografiche e materiali del monumento, indagini restituite in uno dei pochissimi scritti di lui noti: la Relazione dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, predisposta nel 1891 ma pubblicata solo nel 1899.
D’Andrade scrive infatti che la Commissione ministeriale incaricata di approntare il progetto di restauro del Palazzo “sino dal principio dei suoi lavori comprese la necessità di ricerche metodiche per raccogliere i dati e gli elementi necessari al restauro”: le quasi quaranta pagine dedicate alle indagini, contro le due dedicate al restauro testimoniano con eloquenza matematica l’approfondimento raggiunto in direzione della conoscenza del complesso edificio e delle sue sezioni storiche maggiormente significanti, individuate nelle tavole ricostruttive.
Assolutamente inedita per quegli anni fu l’indagine di scavo condotta nello scarico delle latrine, dove fu rinvenuta un’enorme quantità di frammenti ceramici, resti di vetri e di stoviglie utilizzate tra il XV e il XVIII secolo, che ancora oggi costituiscono uno degli elementi di maggiore interesse tra le collezioni dei musei civici.
Altrettanto inedito il concetto di rispetto per tutte le fasi storiche che emerge dai commenti del d’Andrade. quando afferma che non si poterono studiare tutti i particolari delle costruzioni delle epoche successive al medioevo “perché vi erano delle parti di edifici moderni che non era opportuno di distruggere”. Inoltre “si rinunziò persino all’idea di restaurare la merlatura superiore del castello di Ludovico d’Acaia, perché questo lavoro avrebbe avuto per conseguenza di demolire fatti ormai importanti all’interno del castello, e che non potevano essere sostituite che da ipotesi”.
Ecco che si palesa la distanza tra la stagione di interventi di Edoardo Arborio Mella e la nuova stagione di riflessione conservativa espressa da d’Andrade e da quella che di lì a poco diventerà la sua “scuola di restauro” e più ancora, grazie alla sua influenza nella cultura italiana del settore, una scuola nazionale.
La credibilità acquisita con l’intervento in essere su Palazzo Madama fa estendere alla Commissione (ormai ridotta a due soli membri, d’Andrade e Maroni) l’incarico di verificare lo stato della Sacra di San Michele, in un crescendo di problemi e di meraviglia. Nel 1884 – un anno topico per d’Andrade e il Piemonte, evidentemente – le navate della chiesa abbaziale presentavano tali lesioni da farne decidere la chiusura. Mentre si allestivano le opere provvisionali immediate, il Genio Civile produsse un progetto di intervento non condiviso da d’Andrade, che come per Palazzo Madama espresse la convinzione “che nessun lavoro poteva farsi senza che prima si fosse studiata la storia costruttiva del monumento mediante le indagini opportune”.
Tali indagini a tutto campo – bibliografiche, archivistiche e materiali, accompagnate da una documentazione grafica e fotografica eccezionale – sono state rese note nella già citata Relazione dell’Ufficio Regionale e riassunte nelle tavole qui pubblicate. Se è già straordinaria la precisione dei disegni – considerati i metodi di fine Ottocento – ancora più straordinaria è l’introspezione storica, una vera e propria endoscopia del monumento, le cui fasi costruttive vengono individuate con una precisione di dettaglio che i rilievi eseguiti venti anni fa hanno confermato.
Sulla base delle indagini e della conseguente conoscenza del monumento, venne redatto un progetto diviso in due parti: in primis il consolidamento dello strapiombo del fianco sud mediante la formazione di poderosi pilastri e di archi rampanti capaci di contrastare la spinta delle volte. Assicurata la tenuta della struttura, si sarebbe potuto procedere in sicurezza, dando esecuzione ad un più ambiziosa rilettura del complesso abbaziale.
Sappiamo che il grandioso progetto e l’incredibile cantiere che ne seguì modificarono in maniera sostanziale l’immagine della Sacra, “goticizzando” il fianco sud attraverso gli archi rampanti in realtà portati a termine da Bertea e Mesturino se pure con fedeltà al testo progettuale di d’Andrade. Sappiamo altrettanto bene che alcuni sacrifici vennero compiuti – penso alla Porta dello Zodiaco, cui fu sottratto una arcata), penso che alcune aggiunte (come la scala di salita alla chiesa) avrebbero potuto essere evitate, ma penso anche che l’opera del d’Andrade ha permesso di riconsegnare alla storia quello che oggi è il monumento simbolo del Piemonte.
Il 1884 è davvero un anno fondamentale per d’Andrade, che dall’attività e dai successi come pittore, entra a pieno titolo nel nascente mondo della tutela: nel novembre viene nominato Regio Delegato per la Conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, trasferendosi di fatto dalla Liguria – abitava a Sori con la famiglia – a Torino e soprattutto a Pavone Canavese, nel castello acquistato nello stesso 1884 allo stato di rudere e poi restaurato.
Nel 1891 il Ministero trasforma le Delegazioni in Uffici per la Conservazione, con organici stabili; d’Andrade è il direttore di quello piemontese, la cui giurisdizione si estendeva alla Valle d’Aosta, alla Liguria e all’Oltrepò pavese. Con l’istituzione delle Delegazioni prima e degli Uffici dopo, i lavori eseguiti da d’Andrade e dalla sua equipe non si contano più, anche se meritano almeno una fugace menzione il restauro di S. Paragorio di Noli, ancora oggi attualissimo, e quello del Castello di Verres, acquistato dal d’Andrade. al pari della Casa del Senato di Pinerolo, dopo una lunga battaglia con il vecchio proprietario.
La trentennale attività del d’Andrade in seno al Ministero comprende anche le partecipazioni a mostre ed esposizioni nazionali e internazionali, volte a portar alto il nome dell’Ufficio torinese, dall’Esposizione Universale di Parigi del 1900-1901, a quella milanese organizzata in occasione dell’apertura del valico del Sempione, sino a quella romana del 1911, volta a celebrare i primi cinquanta anni dell’Unità Nazionale: qui, come al suo debutto torinese del 1884, l’immagine del Piemonte viene affidata alla ricostruzione del Priorato di Sant’Orso di Aosta, con richiami ad altri monumenti piemontesi e della Valle.
Progettista e realizzatore ne fu Cesare Bertea, destinato a raccogliere il testimone del suo mentore nella direzione dell’Ufficio torinese, nel quale d’Andrade – a partire dal 1910 è sempre meno presente a favore della sede genovese.
E a Genova muore, il 30 novembre del 1915: portoghese di nascita, morì italiano a tutti gli effetti: nel 1912 aveva assunto la cittadinanza italiana, dando sostanza giuridica ad una auto definizione degli anni giovanili: “lusitano di nascita, italiano di cuore”.
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