Che l’incontro tra ecologia e architettura potesse diventare un fertile terreno per una rigenerazione dei ruoli e della legittimazione sociale di un territorio disciplinare vasto, fluido e per molti versi isterilito da un indifferenziata competizione di forme esasperate, ottimistiche e mirabolanti, era prevedibile già dalle esperienze accumulate alle soglie del nuovo secolo. Se da una parte la questione ecologica ha alimentato la diffidenza degli ambientalisti nei confronti di tutto ciò che può essere assimilato allo stereotipo della “cementificazione”, dall’altra, la ricerca architettonica si è rivelata capace di utilizzare il tema della sostenibilità come elemento propulsore di tecniche e linguaggi autenticamente innovativi, producendo valori, comportamenti, repertori di immaginario diversi da quelli della città industriale. Nel bene e nel male, dal momento che la ridondanza mediatica di termini come “Sostenibile, Green, Eco”…., le certificazioni energetiche, la crescita consolidata di un mercato di merci presunte “Green” hanno reso sempre più ambiguo il confine tra la consapevolezza ambientale e la manipolazione dei bisogni prodotta dalle logiche del marketing.

Il tema del contrasto al riscaldamento globale, oggi dominante nello zeitgeist della contemporaneità, ha per ora prodotto deboli risultati concreti, insieme ad una babele di argomentazioni, di eventi, di opinioni, di politiche, di interessi, di aspirazioni e di allarmi che sovrapponendosi contribuiscono a generare una confusa frustrazione, più che a fare emergere programmi, responsabilità, risorse concretamente capaci di mettere a terra la volontà di contrastare la crisi climatica.

Per tentare di rimettere ordine in questa opaca confusione di piani, di competenze, di strategie, mi pare utile ripartire dal ragionamento intuitivo e insieme nitido che il neuro-botanico Stefano Mancuso ha proposto al Forum “Green Table” – tenutosi nei giorni scorsi a Perugia, promosso da Fondazione Giordano e Media Eventi in partnership con l’Istituto Nazionale di Architettura e con l’Associazione per il Disegno Industriale – dopo averlo argomentato in molte pubblicazioni scientifiche e divulgative. Traggo da La Repubblica del 22/04/21 una sintesi del suo pensiero «Se vogliamo ridurre il livello di acqua all’interno di una vasca, le azioni che idealmente dovremmo effettuare sono aprire lo scarico e chiudere il rubinetto. Nessuno penserebbe mai di ridurre il livello dell’acqua nella vasca, lasciando lo scarico chiuso e riducendo la portata del rubinetto. In questo caso il livello dell’acqua continuerebbe a crescere, seppure più lentamente […] Forse sarebbe il caso di aprire lo scarico se davvero vogliamo ridurre la CO2. Come? Sottraendola all’atmosfera con l’unica cosa in grado di farlo: gli alberi. Non sarà molto tecnologico, ma state certi che funzionerà. È già successo nella storia del pianeta». 

La questione è ovviamente assai più complessa di quanto potrebbe sembrare, anche i processi di riforestazione e rinaturalizzazione devono essere guidati da una attenta progettazione che definisca il “come” e il “dove” (il “quando” non può che risolversi nel “più in fretta possibile”), ma non è questo il punto su cui voglio attirare l’attenzione. Quello che mi ha colpito in questa affermazione è l’inversione di polarità, la rivoluzione concettuale che essa impone alla questione della sostenibilità: la velocità esponenziale con cui procede la crisi climatica globale esige un immediato cambio di passo, non basta più “contenere” il consumo di risorse naturali, occorre individuare dispositivi, naturali e artificiali, che contribuiscano ad “eliminare” CO2 dall’ambiente e dunque capaci di esercitare fisicamente una azione rigeneratrice massiccia e diffusa.

Lo scorso 19 ottobre, nel corso del secondo incontro in diretta del ciclo “fare gli italiani all’estero”, IN/Arch Piemonte ha aperto uno sguardo su uno dei settori più avanzati della ricerca in chiave ambientalista, in un ambito in cui i confini tra l’architettura e le altre discipline si dissolvono, e dove molti progettisti legati alla “tradizione disciplinare” probabilmente faticano a riconoscere una continuità con il mestiere così come lo conosciamo. Nei loro specifici percorsi di ricerca, di insegnamento e di attività sul campo “Animali Domestici” (Alicia Lazzaroni + Antonio Bernacchi) girovaghi con base in Danimarca e “Ecologic Studio”(Claudia Pasquero + Marco Poletto) a Londra, sperimentano le possibilità di collaborazione tra tutti i protagonisti dell’ecosistema planetario (animali, vegetali, minerali).

Animali Domestici indaga le “ecologie opportunistiche” ossia le possibilità di realizzare habitat basati sulla interazione biologica tra più specie di organismi dove ciascuno, in una interazione virtuosa, svolge una funzione utile all’equilibrio del sistema.

Anche Ecologic Studio, si occupa di sistemi architettonici e urbani complessi, in grado di adattarsi ai nuovi scenari ambientali, sanitari, alimentari, attraverso la collaborazione simbiotica tra intelligenze multiple: umane, artificiali, naturali. Nelle loro ricerche operative alghe e batteri, sistemi idraulici, rifiuti, contribuiscono a trasformare architetture e città in macchine viventi capaci di replicare i processi metabolici naturali di ricostruzione ambientale e di produzione energetica.

Nella dimensione antropologica della modernità, Natura e Artificio hanno occupato ruoli e spazi ben delimitati che, pur affermando una ideale continuità, tendono ad evitare sovrapposizioni. Le mura dividevano lo spazio amico della Città da quello ostile della Natura. Nella nostra visione antropocentrica, il mondo animale, le piante, i batteri sono nel loro complesso rappresentati come una minaccia per il benessere dell’uomo civilizzato e urbanizzato, fatti salvi gli aspetti circoscritti in cui alla natura è assegnato un ruolo ideale e contemplativo. 

Ma i confini tra questi due regni oggi si vanno sgretolando; oggi, ad esempio, siamo in grado di riconoscere che non tutti i microrganismi sono nemici: molti sono indispensabili al funzionamento del nostro corpo e tutti, amici e nemici, occupano una nicchia biologica nei cicli naturali.

Da una parte la natura sta riconquistando con drammatica rapidità i propri diritti planetari, dall’altra, i processi di ibridazione della conoscenza scientifica hanno permesso di aprire sguardi meno schematici sulla complessità dei fenomeni globali. 

Dai monumenti neolitici agli slanci strutturali del gotico, dalla rappresentazione di una ideale perfezione neoclassica alle metafore naturalistiche di Gaudì, all’eterodossia organica, fino al biomorfismo ricorrente nei linguaggi contemporanei, l’architettura ha intrattenuto con la natura un rapporto ambiguo, che attinge ai suoi valori simbolici ed espressivi, piuttosto che alla complessità e alla mutevolezza dei processi che la sostengono. Forse, in questi ultimi tratti avanzati di un lungo percorso sospeso tra ortodossia e sperimentazione, possiamo riconoscere un concreto passo in avanti, nella direzione di una alleanza tra Natura e Artificio e dove i buoni propositi siano seguiti da fatti. In attesa che anche i grandi decisori trovino il modo di avviare una rivoluzione concettuale e politica che garantisca all’umanità un posto nel futuro del pianeta (sempre che alle parole seguano i fatti).

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