E’ vero siamo nell’era post-ideologica, o meglio l’era della fine dei grandi racconti, o ancora, come direbbe Paul Ricoeur, siamo immersi nella “tragedia della verità”.
Eppure si sente forte la mancanza di un discorso, anche parziale, provvisorio, narrativo, a sostegno delle opere d’architettura che, ormai con qualche pregiudizio, osserviamo sfogliando le riviste d’architettura nazionali ed internazionali. Di questa mancanza certo anche le riviste di architettura (che in Italia sono più numerose che in qualsiasi altro paese al mondo) sono parzialmente colpevoli. L’ossessione di pubblicare tutte insieme l’ultimo progetto della star del momento, tanto che si corre in cantiere per anticipare i rivali.
L’ossessione per l’immagine che sovrasta il testo, con ingrandimenti sull’ultimo rivestimento di moda, sullo spazio inclinato, mirate alla stupefazione che ogni comunicazione d’effetto ormai richiede. Un sovra-consumo di forme, immagini, rivestimenti, con architetture che spesso, nella loro esasperata ginnastica formale, appaiono però già argutamente pensate per essere fotografate, fissate in una sorta di “preposa” plastica. Una modalità di esposizione dei progetti in cui sempre più facilmente scompare il luogo, le storie che lo contraddistinguono, le persone che vi abitano, insieme ai valori simbolici, sociali, culturali, discorsivi che il progetto, nel bene o nel male, contiene. Nuove monadi dall’autorialità esasperata, spesso attraverso l’uso di cifre linguistiche ampiamente ripetute, intese e usate come brand che, eliminando qualsiasi discorso, semplicemente, smodatamente, si esibiscono. Un noto critico commentando la grande kermesse di City Life a Milano ha stigmatizzato le tre famose nuove torri con l’immagine irriverente di tre transessuali che, nel bailamme esasperato, cantano l’ultimo tango di un architettura ormai morente. D’altro canto un nuovo non-discorso avanza, un non-discorso che tutto ammanta e al tempo stesso appiattisce, omologa e assoggetta senza scampo ad un imperativo eco-tecno-ecologico di scala globale.
Accade così che da una parte ascoltiamo esterrefatti chi, per illustrare l’onda della copertura di una grande fiera, ci rivela che la sua ispirazione è sorta nella vasca da bagno, giocando con la schiuma, dall’altra chi si lancia in spiegazioni eco-tecno-ambientali, religiosamente inscritte nel nuovo e globale manuale eco-prestazionale. Altri ancora, cinicamente, giocano sul consumo sempre più frenetico dell’apparizione verdolatrica e, operando all’interno di un ecologismo di facciata, pieno di cespugli, rampicanti, foreste domestiche, in uno stucchevole quanto ripetuto camouflage, forniscono le loro immagini alla comunicazione mediatica come un pasticcino troppo dolce a fine pranzo. Immagini in cui si prospetta un mondo nuovo, rivestito di utopia verde, che da una parte pare annullare tutte le differenze, dall’altra riporta la responsabilità sociale del mestiere dell’architetto soltanto all’interno del paradigma ecologico.
Allora mi chiedo, ma in tutto questo, dove si è nascosto il discorso, l’apparato concettuale a sostegno del fare, la famosa “teoria” del progetto?. Parola scomoda e che oggi fa paura, etimologicamente composta da thea (spettacolo, da cui teatro) e da horan (osservare), e che senza scomodare le grandi ideologie (o scuole) morenti, dovrebbe permetterci di “posare attentamente lo sguardo” sul teatro dell’architettura con strumenti concettuali, scatole di attrezzi, lenti, capaci di articolarne la genesi, di esprimerne delle ragioni, in una parola di pervenire ad una “dottrina” intesa come “complesso di cognizioni o di principi organicamente elaborati e disposti” (Treccani).
Non è quindi una nostalgia della “teoria” con la T maiuscola ma un richiamo alla necessità di tornare a sviluppare nuove componenti discorsive, narrative, che ci permettano di illuminare di senso ciò che accade, per tornare a vedere le differenze, per capire in che modo e per quali ragioni, dentro un percorso progettuale, si è giunti lì e non altrove. Forse (cogliendo un suggerimento di Pierluigi Nicolin) una nuova possibilità in questo senso possiamo sperare di trovarla fuori dalle grandi città, dove si presume che la richiesta di consumo di nuove immagini a servizio della grande finanza, e le logiche della comunicazione globale siano meno pressanti. Luoghi esterni dove le differenze e le identità sono più presenti, dove la specifica cultura materiale è più preminente. Parafrasando una nota battuta di Hugo Von Hofmannsthal forse la profondità del discorso non va più cercata “dentro”, nel profondo delle grandi città, ma “fuori”, nell’estensione articolata e differente dei territori esterni. Territori che oggi sono tornati, guarda caso, al centro del discorso sul futuro (e la sopravvivenza) della città. Territori che oggi sono considerati strategici perché rappresentano ancora una rete di sistemi antropici definiti e capaci di garantire nuove forme di sviluppo sostenibile, nel senso che da lì sembra si possa ripartire per recuperare equilibri considerati ormai perduti tra comunità antropica e ambiente. E questa nuova dimensione appare anche paradossalmente più libera dall’appiattimento omologante prodotto dall’imperativo eco-tecno-ambientale di scala globale. Poiché nell’ipotesi di un ritorno al territorio non saranno la prestazione o l’efficienza tecnologica, la smaterializzazione dei prodotti, o il risparmio energetico i fattori risolutivi che ci porteranno fuori dalla crisi economica e ambientale; ciò che sarà risolutivo sarà invece la capacità della comunità locali di costruire una nuova cultura di autogoverno e di cura del territorio, come base per la costruzione di un nuovo sviluppo sostenibile. Sviluppo sostenibile che, diffuso sul territorio, sarà, per sua natura, nutrito dalle differenze di patrimonio culturale, di risorse materiali, di saperi. Ipotesi che tradotta nel campo della produzione architettonica sul territorio (fuori dalle grandi città), se bene indagata e approfondita, e passando oltre la traccia ruralista o localista, potrebbe aprire la strada, finalmente, a nuovi e articolati discorsi d’architettura.
Potrebbe, in definitiva, offrici la possibilità di uscire dall’aporia attuale del discorso architettonico, permetterci di articolare nuovi apparati concettuali a sostegno del progetto, quelli che oggi, nella comunicazione mainstream, appaiono sempre più assoggettati alle logiche del consumo, omologati, sbiaditi, evaporati.
Discorsi di architettura del senatore Giovan Batista Nelli con la vita del medesimo dedicata all’illustriss. signore Bindo Simone Peruzzi e due ragionamenti sopra le cupole di Alessandro Cecchini architetto. Firenze, 1753.