Era questo l’incipit da sempre di ogni sua telefonata e mi piace continuare a chiamarlo così, “Il Berlanda” come lui si presentava  con autoironica immedesimazione, in terza persona, quasi come se ogni chiamata dovesse essere l’inizio del microcapitolo di un suo personale “de bello gallico”.

Ricordo  alcuni aspetti del nostro rapporto, a partire dal primo incontro.

Il Berlanda” lo conosco da una vita  ma, stranamente, non era stato il “sessantotto” a farci incontrare pur essendo un periodo di contatti agevoli tra mondi  e luoghi diversi (studenti, professori, professionisti, artisti, politici, sindacalisti, cittadini, uomini, donne, organizzazioni e cani sciolti…). L’incontro avvenne invece nel ‘71,  al mio ritorno dal servizio militare  dopo 18 mesi di lontananza coatta da Torino, al Castello del Valentino che avevo ripreso a bazzicare, quando per poco non mi investì con la sua Alfa spider varcandone spavaldamente il cancello. Lo mandai al diavolo senza tanti riguardi. Non sapevo chi fosse quel personaggio alla Jacques Tati col papillon,  ma lo trovai istintivamente antipatico.

Non molto tempo dopo, con mio stupore, mi fece cercare e mi propose di essere suo assistente in facoltà. Io avevo già uno studio con Viviana Riccato e Federico Prandi ma decisi di accettare la proposta. L’attività didattica si reggeva essenzialmente sull’intelligenza e la capacità organizzativa di Angela Anzelmo con l’apporto di Paride Chiapatti (entrambi prematuramente scomparsi); nel corso mi lasciò libero di seguire la mia attrazione verso esperienze meno canoniche: nacquero così , con il suo sostegno, varie  iniziative con realtà sociali di base (i ferrovieri delle OGR,  i tramvieri dall’ATM, ecc.) e soprattutto con la CGIL trasporti con cui , demmo vita ai corsi per “le 150 ore” con dispense a fumetti sulla storia della mobilità a Torino (a cui Diego Novelli dedicò poi un numero speciale di “Nuova Società”). Giorno dopo giorno, lentamente, diventammo amici  attraverso le discussioni per preparare le lezioni e le esercitazioni, spesso nel suo bellissimo (e caotico) studio di via Baretti, frutto del proficuo sodalizio con quel raffinato architetto che fu Gino Beker. Fu così che cominciai a scoprire alcune sue rare  qualità, come ad esempio la capacità di sintetizzare oggetti complessi come le città, disegnandone a memoria i connotati urbani fondamentali. Che fosse Torino, Venezia, Urbino oppure Parigi, Londra, Hanoi, Mumbai, ecc., qualunque fosse il tema, “Il Berlanda  con la biro e un foglietto (o una tovaglietta in trattoria) faceva apparire la  forma urbis di quei luoghi, evocandone il genius loci. Per me fu la scoperta di una dimensione immaginifica e creativa dell’urbanistica, rispetto a quella statistico-pianificatoria , fatta di indicatori e tabelle, che andava per la maggiore. Poi c’era la sua passione (vezzo?) per sezione aurea e Fibonacci quali codici interpretativi e didatticamente esplicativi dell’armonia degli spazi fisici. Conserviamo a casa (uso il plurale perché nel tempo contagiò di queste sue passioni anche Viviana) vari suoi disegni di questo tipo, di cui uno fa da anni bella mostra di sé nel nostro lampadario “ a foglietti” di Ingo Maurer.

La collaborazione accademica si interruppe bruscamente quando fu inquisito per la sua attività di progettista del nuovo Piano regolatore di Parma. Questa vicenda  dolorosa, si concluse poi (troppo tempo dopo), con il pieno riconoscimento della correttezza del suo operato e l’insussistenza delle accuse. Fu tuttavia una ferita che lasciò una cicatrice, che non esibiva, ma che sarebbe ipocrita non richiamare nel momento del suo ricordo, anche  perché quella non fu solo una vicenda individuale, ma il  segnale drammatico di un mutamento profondo che si stava determinando nel rapporto tra professione, politica, giustizia e media: tema, ancor più oggi, di stretta attualità.

I nostri rapporti si diradarono per alcuni anni,  ma questa distanza non modificò ai miei occhi la percezione del suo originale profilo  di architetto politicamente impegnato senza arruolamenti in apparati, ricco di esperienze internazionali, individualmente connesso ad una rete di relazioni di alto livello in Italia e all’estero, con una interessante coerenza tra la sua immagine e la sua personalità, quale  intellettuale ad un tempo popolare ed aristocratico. Infatti  il Berlanda  con la sua statura, la sua dinoccolata eleganza sempre un po’ fané (di cui l’immancabile papillon era l’emblema più evidente), con somiglianze innegabili con grandi figure del movimento moderno (Le Corbusier, Gropius, Aalto, ecc) appariva  naturalmente élite (senza arroganze) sentendosi popolo (senza indulgenze), consapevole di far parte di una “aristocrazia del pensiero e della competenza”, che non ambisce privilegi, ma mette a disposizione i saperi disciplinari per l’emancipazione di quanti hanno avuto meno opportunità. E’ in fondo un modello illuminista (corretto dalla critica marxiana sui limiti delle libertà e dei diritti come sovrastruttura) sapendo che il sentirsi parte di un  destino collettivo non può voler dire   essere corrivi con le arretratezze in seno al popolo, barattando compiacenza con consenso (ovvero quello che oggi si dice “parlare alla pancia”). In più l’architetto progressista, pensava “il Berlanda”, porta in dote ai processi di trasformazione dei nostri territori, gli esempi   testati in giro per il mondo (soprattutto nord-Europa) capitalizzando le esperienze in termini di tipologie, modelli e standard ( il linguaggio  invece non era in cima ai suoi interessi, attento quindi più  alla forma urbis  che all’imago urbis).

Proprio per questa sua visione ad ampio spettro, dalla seconda metà degli anni ‘80 anni gli chiesi di collaborare a varie iniziative di cui sono stato promotore: nel comitato scientifico interdisciplinare della Eidos presieduto da Riccardo Morandi, poi in Sitaf per la valorizzazione dell’autostrada nel territorio ed infine nell’Osservatorio della Torino-Lione come esperto che mi ha  supportato con competenza e discrezione fornendo informazioni, conoscenze e contatti preziosi.

Due curiosità nel repertorio dei ricordi lievi.

La prima quando, da velista provetto istruttore di Caprera, ci invitò (Viviana, Andrea, Federica ed io) una dozzina di anni fa,  a scoprire la laguna sconosciuta di Venezia con la sua barca Bagheera ormeggiata a San Giorgio,  nel luogo definito da Paolo Rumitz ”il più bello del mondo “. Indimenticabile!

Ma al ritorno, all’attracco, essendosi impigliata una cima nell’elica vedemmo “il Berlanda” scomparire sotto coperta smoccolando come un turco a Lepanto  e poi  riemergere, ultraottantenne quale era, con pinne e maschera per tuffarsi nell’acqua limacciosa della darsena e liberare l’elica.  Dovemmo faticare per farlo desistere e lasciare che fosse il trentacinquenne Andrea a fare il sommozzatore.

L’altra è invece la mania che gli prese tempo fa , quando cominciò a chiedermi insistentemente di fargli un ritratto pur sapendo che avevo smesso di dipingere da molti anni. Alla fine cedetti. Ci lavorai alcune settimane creando un’allegoria del “mio” Berlanda immaginario, tra architetture impossibili, mare  ed ogni presenza che sentivo associata alla sua figura allampanata alla Tati.

Nel nuovo secolo abbiamo trovato altre  occasioni di incontro nella  comune frequentazione del Ponente Ligure ed un inedito  Berlanda  faber ha lavorato con me a montare pergolati in terrazza, ovviamente parlando di Tav  e di politica,  lamentandosi  di tutto come  faceva Bartali per cui ”…l’è tutto sbagliato, l’è  tutto da rifare…” ma, ammaestrati da Paolo Conte, bastava che  lo guardassi di sottecchi  per vedere  “..quegli occhi allegri da italiano in gita…”

(Tornando alla telefonata d’inizio)…pronto…pronto…pronto…click. “Il Berlanda“ ha riattaccato. Per sempre.