Gli uomini aspirano all’immortalità e alla perfezione. O almeno ad una loro personale idea di perfezione, deformata forse dai modelli di comportamento più rassicuranti, dalle convenzioni più consolidate o dalle mode più contingenti. Perciò, constatata la loro provvisorietà e inadeguatezza e non potendo raggiungere l’immortalità e la perfezione essi stessi, gli uomini affidano ai manufatti che ospitano il loro abitare il compito di rappresentarli nella storia; su di essi gli uomini proiettano il bisogno di sottrarsi alla corruzione del tempo e di esibire – con più o meno eccessi – le forme prese a prestito dalle mode o dai modelli rappresentativi della loro condizione sociale. Senza preoccuparsi troppo della coerenza e dell’integrità dell’intero edificio.
Poi, il tempo si assume il compito di elaborare e ammorbidire i contrasti e le esuberanze, ricoprendo tutto con un velo di polvere indifferenziata; sotto quel velo diventa difficile identificare ciò che al suo tempo poteva apparire ripetitivo e convenzionale rispetto a ciò che era autenticamente originale o addirittura eccessivo e spregiudicato. Anche il cambiamento dei codici interpretativi contribuisce a idealizzare l’immagine dei manufatti storici, sottraendoli al giudizio della loro epoca per riclassificarli all’interno del sistema dei linguaggi e dei valori contemporanei.
Ma il tempo deposita sulle cose, oltre alla polvere, anche i danni prodotti dalle intemperie, dal decadimento dei materiali, dall’incuria, dalla dimenticanza.
Dunque il tempo sedimenta tracce di eventi – ordinari e straordinari –, aumenta la definizione del dettaglio, aiuta a percepire la profondità della storia.
Fino a un certo punto: quando la polvere e le lacerazioni depositate dal tempo rendono illeggibili i manufatti e li rendono vulnerabili, il processo di degrado diventa sempre più accelerato. Tanto da compromettere la fruibilità del bene e metterne a rischio la sopravvivenza. Fino a minacciare la memoria.
Resta sospesa la domanda: non è forse la rivelazione della fragilità delle cose e degli uomini a produrre inquietudine, a chiedere di percorrere a ritroso il cammino del tempo?
A quel punto si apre la strada del restauro: una strada difficile, lungo la quale si aprono ipotesi inattese, si celano tranelli, si rischia di procedere per inerzia e – alla conclusione – accorgersi di avere inesorabilmente deragliato dalle intenzioni di partenza. E neppure il concetto di “originale” o “autentico” offre solidi appigli: quale immagine è più autentica? L’ultima immagine conservata nella memoria, o quella della prima – presunta – originale forma assunta dall’edificio? La nostra, quella che conserviamo nella nostra memoria, o quella di altri, lontani da noi nel tempo e nel clima culturale? E ancora, ricostruire l’immagine di un manufatto sfavillante, come se fosse stato appena ultimato, non pare affermare la superbia dell’uomo, la sua aspirazione a sottrarsi artificialmente al suo destino mortale? In questo modo il restauro non può correre il rischio di sottrarre informazioni anziché arricchirle?
La ricerca di un punto di equilibrio tra la cura di ciò che ci è stato affidato dalla storia, l’esigenza di far riemergere le tracce affievolite, riportare alla più piena leggibilità i caratteri e le peculiarità dei manufatti – da una parte – e la responsabilità di non cancellare il senso ultimo delle cose, il loro essere fatte essenzialmente di tempo – dall’altra – deve costituire il suo compito e delimitare il suo ampio campo operativo.
Così nel “re-stauro”, nell’illusione di un percorso oggettivo, che riporti nel presente quello che già era, ricompare tutta l’indeterminatezza connessa al “pro-getto”: la costruzione di una trama in cui si intrecciano storie, congetture, interpretazioni, che mettono al mondo qualcosa che non è ancora del tutto espresso e atteso, che aprono interrogativi, piuttosto che fornire conclusioni.