Il landmark è una parola cara agli architetti.

Landmark è segnale, riferimento nello spazio. Senza landmark un territorio è insipido: chi lo percorre o lo abita è smarrito. Senza landmark Il luogo è, come si dice, “un non luogo”.

Landmark  può essere una torre, un faro, ma anche un cartellone, una chiesa, un ponte, un monte, una grande quercia. Se c’è un landmark il paesaggio  ci parla, ha senso.

Ma può anche essere uno scoglio nel mare, roccia contro la quale non bisogna cozzare per non farsi male, ma che, comunque, nella navigazione devi rispettare.

Franco Berlanda è stato, è, un landmark. In molti modi. Certamente lo è stato per la sua statura che lo portava ad eccellere sui presenti, poi perché, probabilmente,  nei piani urbanistici segnava attentamente i landmark, e anche perché nei dibattiti era duro scoglio o torre, sempre però visibilissimo segno nelle nostre nebbie.

Aula dei tecnigrafi fine degli anni cinquanta. Dopo otto ore frenetiche, bisognava consegnare il progetto che l’indomani il grande professore, Muzio avrebbe corretto. Gli assistenti, Becker, Berlanda, Dolza, Casalegno, circolando guardinghi tra i banchi, consigliavano, incoraggiavano, sconsigliavano, demolivano. Berlanda dall’alto della sua statura, individuava facilmente i più bisognosi. Per noi, un po’ ignorantelli, le sue parole  sembravano un po’ enigmatiche,  ma noi cercavamo di interpretare i messaggi degli occhi, più o meno severi, della bocca, più o meno sorridente.

Come sempre avviene nelle nostre accademie, i saggi consigli degli assistenti, poi, venivano puntualmente smentiti dalle correzioni severissime di Muzio.

È, forse da allora che ho cercato la mia autonomia architettonica, libero da complessi edipici, ma con una certa pietas, nei confronti dei Maestri.

Con Elio Luzi, in quei giorni, abbiamo capito che il progetto, per esser autentico,  deve esser sofferto, ma anche, come diceva Schiller, dovrebbe anche  esser “gioco”.

Questi bravi assistenti sono stati, presto, spazzati via dall’arrivo di quelli di Mollino.

Un giorno, venuto a sapere che avevo partecipato alla Resistenza, mi ha preso da parte nell’aula e mi ha raccontato le sue avventure di allora, mi ha mostrato la storica fotografia nella quale si vede lui “ Grigia”, questo il nome di battaglia,  che spicca altissimo landmark, sfilare in una Torino appena liberata. Comandante armato, visibilissimo, alla testa dei suoi partigiani. Quel giorno anche io ero lì. Il più giovane garibaldino, così mi chiamava il comandante Barbato.

Quella stessa fotografia è ripresa in un grande foglio a stampa, che, un giorno, mi  aveva portato nello  studio, un grande foglio che illustra le sue molte avventure.

Cambio di scena: Girolata, Corsica; baia allora inaccessibile da terra, nota a pochi naviganti.

Mentre su di un gommone ci avviciniamo, nella notte, alla spiaggia affamati e attirati  dalle luci di una trattoria, davanti a noi appare nel buio un landmark – scoglio o persona? – che subito si rivela il Berlanda, ritto come Caronte su un canotto completamente sgonfio. Poi cibo, vino, racconti mirabolanti di viaggi, di architetture, di Le Corbusier, di Picasso…

Ancora lo incontravo in qualche convegno, sovente tutti e due un po’ annoiati. Poi ci trovavamo lassù al Montoso, dove aveva progettato il monumento alla Resistenza, un grande landmark di pietre. Lì con Pinna Pintor ascoltavamo e commentavamo i discorsi di rito. E perché non fare, ci dicevamo, una pubblicazione delle sue e  delle mie pietre, landmark che abbiamo ammucchiato per segare  i  luoghi della memoria, i paesaggi dei nostri tempi? Sorrideva con gli occhi, ma non con le labbra.

Fra qualche giorno spero di ritornare lassù al Montoso. Anche se molti landmark, così  come le vecchie querce, stanno silenziosamente scomparendo.

Nella foto Franco Berlanda davanti alla scultura in bronzo Il Monumento agli Svizzeri che riproduce la “Main ouverte” di Le Corbusier