La tolleranza in Architettura non è l’Architettura della tolleranza.
L’architettura della tolleranza, potrebbe sembrare una nuova aggettivazione, alcuni anni fa Francesco Venezia scriveva: Può l’Architettura tollerare aggettivazioni?
Il secolo scorso è ricordato per i movimenti, per gli ISMI; poi è subentrata l’epoca delle aggettivazioni dell’architettura.
Anche in architettura quando si cerca di vendere meglio un prodotto, fare una reclame, un programma politico o si cerca di cooptare facilmente gli ingenui, si suole prendere facili scorciatoie attraverso uno smodato uso di aggettivazioni. Sono una moltitudine, di ogni genere, come se l’Architettura non bastasse più; e allora diventano slogan l’Architettura Bioclimatica, Sostenibile, Verde, Solidale, Decostruita, Accogliente, Ambientale, Resiliente, Tollerante.
L’Architettura è… Architettura! Tutto il resto è superfluo.
Siamo stanchi di opere muscolari, “anabolizzate”, allo stesso modo siamo stufi delle opere buone “catto-sociali-ambientali”, quelle che hanno la pretesa di salvare il pianeta. l’aggettivazione conferisce all’architettura un peculiare status politico programmatico, allo stesso tempo la rende “merce”.
L’Architettura è Architettura. La premessa o l’abile programma costruito a tavolino non ne suppliscono la qualità.
Cos’è l’Architettura senza aggettivazioni? È spazio, luce, materia, volume, rito, costruzione, luogo, città, cultura umanistica-tecnica-scientifica, sono soltanto alcune invarianti, alcuni caratteri permanenti e vanno oltre la moda aggettivante.
Gli aggettivi sono simili a dei passe-partout o dei megafoni per amplificare e semplificare la comunicazione di massa.
Viviamo come mai prima nella storia dell’umanità, una globale condivisione delle informazioni, amplificate dai social media. Strumenti come Twitter, Facebook, Instagram, i blog hanno contribuito a costruire il mito della condivisione. Comunichiamo, magari le cose più inutili del mondo, come far sapere agli altri delle nostre vacanze, cosa abbiamo mangiato.
È paradossale che nell’epoca della condivisione ci troviamo ad affrontare, non solo in Italia, un serio problema planetario, mai come in questa fase della vita ci troviamo immersi in un clima di intolleranza, di divisione, di diffidenza e di rabbiosità, di fake, di virus, di haters e di hackers.
Frotte di rabbiosi internauti utilizzano i social non solo per esprimere dissenso, ma per distruggere gli altri, usare violenza e deviare il comune pensiero, o per costruire un consenso deformato.
La precisione imprecisa e l’elogio dell’imperfezione.
Quando compriamo un dispositivo tecnologico, un cellulare, anche un’automobile abbiamo la pretesa della perfezione. La tecnologia ci insegna che la perfezione è un valore. Però quello che abbiamo appreso oggi è che da un punto di vista umano l’imperfezione è un valore, forse ancora maggiore della perfezione.
“Quando una persona ci è molto odiosa diciamo che è un “perfettino”.“Perfettino” dovrebbe essere un complimento e invece è qualche cosa che esprime un dissenso, un disagio, non ci vorremmo mai trovare davanti un “perfettino”.Significa molte volte un formalista, un perfezionista, un cavilloso.Perché la perfezione non appartiene all’uomo, ovviamente se ci si sente o si è imperfetti si è maggiormente portati a tollerare le imperfezioni altrui. Lo diciamo anche agli insegnanti, a noi stessi, agli altri, qualche volta bisogna tollerare l’imperfezione anche nei giovani, perché se non è sciatteria, o quando non è sciatteria l’imperfezione è un valore.” Da, Fulvio Irace, elogio della tolleranza.
La differente tolleranza di Atene e di Sparta.
Atene ha fondato la cultura occidentale, è ricordata per essere stata la patria dei grandi pensatori, filosofi, poeti e artisti; con i loro dubbi e le loro debolezze umane.
Sparta, ha lasciato poche tracce di sé nella storia. Perché prevalentemente impegnata a creare “superuomini”, soldati invincibili, rifiutando qualsiasi debolezza umana.
I poeti, i filosofi e gli artisti ateniesi hanno trasformato in arte le loro debolezze.
Gli spartani, invece, buttavano i deboli e gli storpi dalla rupe.
Oggi, i diversamente abili, oltre a diventare artisti, poeti, filosofi e pensatori sono degli indomiti atleti, sono degli autentici eroi, esempi di vita per la loro passione civile.
L’arte del Kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い), formata da due parole, una è oro (“kin”) e l’altra è riunire, riparare, ricongiungere (“tsugi”) da diversi anni è molto apprezzata anche in occidente. È l’arte giapponese che ripara, la ceramica infranta. Viene ricomposta, macché, viene esaltata attraverso la nuova vita delle linee di frattura; addirittura i pezzi più pregiati vengono uniti con l’oro. Le cicatrici come arte della vita vissuta, che abbraccia i danni, senza vergognarsi delle ferite.
L’architettura per sua natura è un ponte di congiunzione, non dovrebbe quasi mai diventare fattore di divisione. L’architettura costruisce o dovrebbe costruire gli spazi di condivisione. Oggi, alcune architetture hanno poco se non nulla da dirci, nulla da insegnarci sul tema della tolleranza, della convivenza, dell’auto sopportazione. Altre invece sono autentici esempi, delle “offerte” alla comunità.
Louis Kahn, conferiva al calcestruzzo delle peculiari matericità, grazie alle casserature rustiche di legno non piallato. Secondo Robert Venturi si potrebbe immaginare la dura esistenza del bambino dal volto sfregiato dall’acqua bollente, per Venturi sembra la trasfigurazione di Kahn nell’architettura, nella quale anche l’arte non è esente dalle imperfezioni.
Dimitri Pikionis, ha progettato con l’utilizzo dei resti di marmo e pietre antiche alcuni percorsi di risalita all’Acropoli di Atene “…I punti più esposti non sfuggono a questo pathos unitario. Le superfici delle strade più larghe sono ripensate e risolte con la misura e la diretta posa in opera di ogni pietra e di ogni cassaforma del calcestruzzo, con il disegno di ogni dettaglio, fino alle più piccole scoline dell’acqua e ai fili d’erba al bordo degli uliveti”. dal Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, 2003.
Francesco Venezia, nella ricomposizione del frammento della Casa di Lorenzo a Gibellina, crollata a seguito del terremoto del Belice, realizza un abile e poetico esercizio di incastonamento dei resti all’interno di nuove trame murarie. Raggiunge una inusitata lirica espressività nel giunto di congiunzione tra il nuovo e il frammento. Riesce ad esaltare la poetica del giunto, per molti invece è soltanto un mero espediente tecnico.
Wang Shu, Pritzker Architecture Prize, nel Ningbo Historic Museum, combina due tecnologie costruttive: il cemento armato, modellato superficialmente con canne di bambù e le parti realizzate con la tecnica wa pan (riuso di materiali esistenti). Quest’ultime rivelano nella tessitura superficiale dei muri la presenza di tegole e mattoni riciclati: più di venti tipi diversi, recuperati durante le demolizioni degli antichi villaggi.
Si potrebbero citare molti esempi, quelli appena accennati sono accomunati, in forme diverse, da una “precisione imprecisa” che trova poeticità nell’accurata sovrapposizione, l’accostamento delle giunzioni; alcune di queste tra nuovo e preesistente, nel continuo fluire del tempo. La poetica del giunto è espressione di tolleranza costruttiva e culturale.
Tolleranza
È la capacità di resistere a condizioni sfavorevoli o potenzialmente dannose.
In architettura, quasi sempre costruire un edificio si trasforma in un campo di battaglia; non è una pratica dolce, è un momento dove si confrontano varie esigenze, a volte divergenti.
Non è mai qualcosa di asettico, è un processo nel quale l’architettura assorbe e limita il margine di errore, sia nel progetto, sia nell’esecuzione.
Un sostantivo molto comune, di moda, ormai sdoganato ovunque è la Resilienza, la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
Nonostante le avversità, cado e mi rialzo, la più grande forza non è il non cadere ma la capacità di reazione. Anche l’architettura fa utilizzo di alcuni materiali con “memoria di forma”, come gli isolatori sismici elastomerici. Li ho sperimentati nel Padiglione di ingresso agli scavi dell’Artemision di Ortigia. Sono disposti alla base dell’edificio, in caso di azione sismica è tarato per “dondolare” dolcemente alcuni centimetri, così da assorbire l’energia sismica, per poi tornare alla posizione precedente.
In psicologia, la Resilienza è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
La Tolleranza invece è fondamentale per comprendere l’importanza dell’umanizzazione dell’opera d’architettura, in quanto l’errore è insito negli umani.
La Tolleranza è una precisione imprecisa. Non è la perfezione ma una elastica e dinamica tendenza a ciò.
Per cui, la perfezione nel cantiere si rivelerà molte volte il limite, sarà da sottendere ma è quasi sempre inarrivabile. Bisogna progettare con margini di tolleranza che prevedano errori. L’errore è innato è il limite umano, l’architettura è opera dell’uomo.
La Tolleranza non è solo nella comunità delle persone, ma anche nell’architettura l’edificio, è una comunità di materiali che non voglio stare assieme, o che tra loro non hanno nessuna attinenza. Il vetro e il legno non hanno nulla a che vedere tra loro, lo stesso la pietra, l’acciaio e il cemento armato.
È l’abilità e l’ingegno dell’uomo che riescono a far convivere il sistema complesso attraverso la tolleranza materiali. Alcuni strumenti che facilitano il dialogo e la tolleranza sono la geometria, la misura, la matematica, la fisica, la chimica, lo studio dei fenomeni naturali ed il pensiero speculativo. La Tolleranza fa sì che gli errori sommati nel corso delle lavorazioni possano venire assorbiti.
Ricordo uno dei primi progetti, la Nuova corte dei Bottari nell’isola di Ortigia (Siracusa), nell’immaginare un contrafforte avevo ancora in mente alcune mura ciclopiche egizie e l’incastro millimetrico dei blocchi di diverse decine di tonnellate. Componevano un’unica potente maglia muraria. Mi venne naturale progettare un contrafforte “egizio”, preciso al millimetro, misurato in ogni sua parte, con gli amorosi incastri di pietra “maschio-femmina”.
Ho avuto la grandissima fortuna che l’esecutore dell’opera fosse un eccellente mastro di pietra (il Sig. Petrolito) erede di grande tradizione, di innata capacità tecnica e cultura lapidea. Avrebbe potuto realizzarlo ancora più preciso di come lo avessi immaginato, aveva appena scolpito a mano libera le colonne e i capitelli interni della Cattedrale di Noto, crollata alla fine del secolo scorso.
Mi disse “architetto questo contrafforte non si può fare, perché è un disegno e soltanto un disegno preciso. Se lo immagina come rivestimento, si taglia e si incolla sulla parete come se fosse marmo o ceramica. Ma se mi chiede un sistema costruttivo murario, allora è meglio lasciar perdere”. Io risposi, “ma è perfetto!” Mi disse, “architetto le cose perfette sono sbagliate.”
L’eccesso di precisione, rigida o mentale, non considera l’errore degli altri, per cui basta un piccolo errore che si somma su tutti gli altri e l’opera perde di qualità.
L’abilità progettuale consiste nel considerare i margini di errore degli altri e di mitigarli. Per cui, l’edificio porterà con sé una serie di errori, la tolleranza prevede che il posatore di un rivestimento possa avere un certo margine di errore, di umanità. È l’umanizzazione dell’opera.
Sono da considerare la stanchezza, la fatica del fare. Per cui, il primo disegno del contrafforte era una forma, dettata dalla fascinazione dei muri egizi. Ero tornato dall’Egitto stordito dalla bellezza delle mura, ma non ne avevo compreso la forma costruttiva, soltanto quella di superficie, quella superficiale. Grazie al Mastro lapicida il contrafforte è stato modificato, il disegno ora porta con sé una serie di regole, di misure precise e di tolleranze costruttive.
Tra queste, nel lavorare alcuni blocchi di pietra ho appurato che la sega esercitava particolarmente attrito e resistenza al taglio, vibrava maggiormente e lasciva traccia sui blocchi delle dentellature della sega. L’abile mastro voleva levigare i “difetti” di taglio, levigando i blocchi, così da togliere l’errore dell’uomo e della macchina da taglio.
Dopo aver imparato la sua precedente “lezione” gli dissi che il taglio “filo sega” esalta la durezza della pietra e la difficoltà della lavorazione, sono di disarmante bellezza, e che il taglio potesse far parte della costruzione così da diventare parte della tolleranza.
In alcune fasi della giornata, quando il sole e il gioco delle ombre bagnano la parete, i così detti “difetti” del taglio “filo sega” diventano delle magnifiche ombre che arricchiscono di trame e di tessiture la parete. Evocano, anche per pochi minuti, gli antichi tagli di cava delle Latomie di Siracusa sulle quali sono ancora visibili i millenari colpi di gradina, (strumento antico, simile ad un pettine di ferro utilizzato per raschiare le pareti di cava).
Quante mani, quanti gesti, quanta umanità, e quanta poca tolleranza. Molti dei cavatori erano schiavi o prigionieri di guerra, come i soldati ateniesi sconfitti nel porto di Siracusa del 415 a.C.
“Parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzano i fusti di queste colonne…” M. YOURCENAR, Memorie di Adriano, traduzione e cura di Lidia Storoni Mazzolani.