COSTRUIRE E’ ATTO SACRO.

Ogni pietra rappresentava 

il singolare conglomerato d’una volontà,

d’una memoria, a volte d’una sfida. 

Ogni edificio sorgeva sulla pianta d’un sogno. 

Marguerite Yourcenar, “Le Memorie di Adriano 

Attribuire sacralità ad un edificio, ad un luogo, non è necessariamente l’evocazione del rito, del sacrificio, del mistero. Nemmeno la contemplazione del feticcio, è riconoscere nel processo, nell’azione umana di manipolazione della materia naturale (Mater) e la sua trasformazione in strumenti, così da disporli con cura secondo un Ordine matematico, geometrico, cosmico. È comprenderne l’unicità del sito che diventa Luogo, e ogni luogo ha un suo Spirito. 

Tra architettura ed edilizia vi sono delle differenze abissali, eppure molti fanno fatica a distinguerle. Architettura non sono soltanto gli edifici, è l’umanizzazione dell’ambiente naturale e di quello antropizzato, è trasformare gli spazi in Luoghi. Sia l’architettura che l’edilizia si confrontano con la costruzione e con la forma degli edifici.  

L’Architettura ha molteplici valenze, non è solo la tecnica e la pratica del costruire, si nutre costantemente della fondamentale cultura umanistica, antropologica, storica e geografica. Non a caso è annoverata tra le discipline umanistiche, artistiche, scientifiche e tecniche, come tra le più profonde espressioni umane. In passato tale carattere conferiva ad alcuni edifici una peculiare valenza sacra. La sacralità non va cercata prevalentemente nel luogo di culto, anzi, a mio avviso è proprio nell’atto del costruire, il primo è stato anche agricolo: come ho già scritto è scavare il primo solco.

È fecondare la terra, segnare un limite. Gli antichi romani quando fondavano le città, non lo facevano casualmente; corrispondeva ad un particolare rito e significato simbolico. 

Tutti ameremmo vedere realizzate, al più presto, le nostre visioni, i nostri progetti, e invece una selva norme, di ostacoli burocratici di ogni genere ne bloccano, ne rallentano il processo, poi, la realizzazione diventerà una corsa contro il tempo. Forse non dovremmo costruire con facilità, rapidamente, gli edifici, in quattro e quattr’otto; penso che si dovrebbe tornare a contemplare l’importanza e la complessità del fare, così da riscoprirne la sacralità del costruire e non distrarci nel culto dell’edifico nuovo. 

Mi rendo conto che sono concetti difficili da digerire, ma le risorse sono fondamentali, ovunque scarseggiano, per cui bisogna onorare al meglio la materia, il processo, i luoghi. La crisi climatica, economica, il complesso reperimento delle materie prime, dei materiali da costruzione, la trasformazione ed il trasporto delle stesse ci impongono importanti riflessioni. Il concetto dell’edificio macchina, di retaggio novecentesco, è da diversi decenni obsoleto, superato, anche se ancora permangono simili suggestioni negli edifici specialistici dettati dalle incombenze.

Costruire non è una pratica dolce, richiede un notevole impiego di risorse. Chi pensa che l’architettura sia quasi “indolore”, una sorta di un analgesico, si adagia alle eccessive semplificazioni e riduzioni; la costruzione è una pratica dura, per la quale è richiesto esercizio, determinazione, conoscenza, rispetto del limite. La sacralità dell’opera non è la sua intangibilità o inscalfibilità. Tutt’altro, alcune iconiche architetture hanno superato millenni grazie alle mutazioni, alle trasformazioni di programma, di uso delle loro strutture. La loro “resistenza” alle avversità, delle quali ne hanno assorbito porosamente le tracce, i sedimenti. 

L’architettura va immaginata come un grande quadro, un telaio compiuto, e allo stesso tempo “aperto”, in modo che altri possano nel tempo intervenirvi. 

La porosità è una delle peculiarità delle architetture che resistono, e che nel tempo assumono senso collettivo. Il gusto repentinamente cambia, la moda nella sua dimensione effimera in pochi anni tutto consuma, per cui edifici glamour possono diventare altro, a volte discarica. Bisognerebbe recuperare il senso della durata, ricostruire e/o costruire senza tempo, senza l’assillo della scadenza preordinata, dell’incombenza tecnologica o quelle energetica e naturale, tanto di moda nell’ultimo decennio. 

L’architettura dovrebbe assumere nuovi orizzonti, negli ultimi decenni si è fin troppo sbilanciata nell’oggetto di consumo, il marketing, il glamour. Bisognerebbe riscoprire le più elevate espressioni umane. 

Il sacro nell’architettura antica.

È una lezione importante dalla quale potremmo trarre ispirazione continua. 

Nell’area mediterranea vi è stata una singolare fusione di culture che hanno interpretato luoghi, natura, mito, storia, arte e architettura. Tra le molteplici espressioni, il controllo della luce naturale in architettura, e il conferirle una peculiare valenza espressiva, è stata una costante ricerca millenaria. Il sole in tutte le civiltà e le religioni è simbolo del divino, la presenza di ogni cosa. Chi riesce a “catturarne” e a costruire con lo strumento della luce, attraverso il gioco delle ombre, ha aggiunto un peculiare sentimento, uno stato emozionale che alcuni definiscono sacro.

Il Pantheon è un eccezionale strumento astronomico, è la massima rappresentazione del sacro pervenutaci e tutt’oggi ci rinnova tali suggestioni. Sovviene la poetica interpretazione di Marguerite Yourcenar, nelle “Le Memorie di Adriano” scrive: “avevo voluto che quel santuario di tutti gli déi riproducesse la forma della Terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. Era quella, inoltre, la forma di quelle capanne ancestrali nelle quali il fumo dei più antichi focolari umani usciva da un orifizio aperto alla sommità” …  “Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco del giorno vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d’oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli déi.

Il Pozzo Nuragico di Santa Cristina “è per antonomasia “opera femmina” di epoca Nuragica , immagino per riti ancestrali propiziatori della fecondazione e della fertilità. Entrarne nel pozzo, a raso terra, è come fecondarla, è simile ad entrate nel grembo materno. E’ un mondo ipogeo-ctonio-tettonico. Sembra anche la porta dell’ultraterreno, quello degli inferi. All’uscita, si ha la sensazione di rinascere“. (1)

Evocare attraverso la luce uno speciale stato dello spirito è cosa rara, non riguarda soltanto gli edifici liturgici o religiosi. Siamo propensi a commuoverci, anche a contatto con la natura, in mezzo ad una radura, nel deserto o sulla sponda di un lago, davanti ad una finestra, all’interno di una stanza o di un portico, attorno ad un tavolo. 

Una delle più ricorrenti e celebri citazioni di Le Corbusier è “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere.” La commozione è una propensione dello spirito e l’architettura l’amplifica e la rivela. 

Tra i catalizzatori dell’immaginario vi è la memoria visibile, le tracce sedimentate sul territorio e quella invisibile, rigenerativa, che permane nei luoghi, come le memorie dei poeti, dei letterati, dei filosofi, o le gesta epiche, le tradizioni tramandate nei secoli. Caricano luoghi ed edifici di una indicibile forza e di sentimento collettivo. 

Nei tempi antichi per sancire la sacralità era spesso previsto il sacrificio rituale. Alcuni di questi, in forma diversa, si tramandano. Tutt’oggi, nonostante l’avanzamento tecnologico, rimaniamo profondamente antichi. Le religioni, alcune tradizioni provengono e sono la mutazione di antichi riti, i quali vengono riscritti, riletti e reinterpretati continuamente. Ancora oggi, a distanza di millenni, alcune usanze permangono, sono inconsapevoli antiche offerte tribali e pagane, pur perdendone il significato mantengono lo stesso senso dell’offerta. 

Mi è capitato di partecipare alla “ritualizzazione” del primo “getto” del solaio di alcuni cantieri a conduzione artigianale o familiare, di piccole imprese edili del meridione d’Italia: completato il getto i carpentieri fanno una piccola pira con alcune tavole di risulta, predispongono la brace sulla quale arrostiranno prevalentemente carne di ogni tipo, così da consumare il primo pasto sotto il nuovo tetto, la chiamano prosaicamente l’”arrustuta”. Conferisce un senso di appartenenza, convivialità, un sentimento di comunità d’impresa. Edificare il primo solaio è importante e richiede per l’appunto un’impresa. In realtà si tratta di un rito arcaico e propiziatorio. 

In passato si offrivano gli animali alle divinità con un sacrificio rituale, si chiedeva benevolenza, diventava viatico per i buoni auspici.

Per la consacrazione degli Imperatori, dei Re, dei Tiranni, per celebrare le grandi vittorie, le importanti ricorrenze erano previsti giochi, spettacoli ed anche il sacrificio di una moltitudine di animali, prevalentemente tori, buoi od ovini. A Siracusa nell’area archeologica della Neapolis, nella prossimità del Teatro Greco, si narra che nell’ara di Ierone II, un monumentale basamento roccioso, largo circa 28 e lungo 198 metri, durante “Il rito in onore di Zeus Eleutherios in occasione delle feste dette Eleutheria sembra sia consistito in giochi sportivi e nel sacrificio di 450 tori.” 

George Hersey nel “Il significato nascosto dell’Architettura Classica” sovverte l’immaginario comune, sostenendo che l’architettura sacra era sacrificio. 

I templi erano omaggi sacrificali, e ciò fa parte del significato nascosto dell’architettura classica che molti hanno smarrito, tantissimi non hanno mai compreso. 

Come scrive Biraghi nell’introduzione, “l’interpretazione che Hersey fornisce dell’architettura classica – e dell’ordine classico in special modo – ruota intorno a un inamovibile caposaldo: la riconducibilità dell’universo architettonico all’universo religioso, e dunque rituale e sacrificale”. 

Alcuni potrebbero obbiettare che “non è compito della storia dell’architettura fornire spiegazioni di questo genere e che tale dovrebbe essere piuttosto compito della storia delle religioni” … Ma per comprendere il significato dell’architettura classica, a volte è necessario “interrogarsi sulla questione del sacro in architettura dunque (hieròn, sacrum “pagano”, naturalmente, non sanctum cristiano)” … “Alcuni elementi decorativi degli ordini architettonici e i loro nomi sembrano derivare dalla processione che accompagnava le vittime all’altare” … “abbiamo notato la corrispondenza tra caccia e sacrificio, in particolare il sacrificio animale, e che le zampe delle vittime erano legate, in modo simile a come il cacciatore lega la sua preda.”

Allo stesso modo la modanatura a cavetto, il nome generico deriva dal greco ‘spéira’, è una fune, avvolta o tesa, con la quale legavano gli animali, e negli antichi riti tribali anche gli umani da sacrificare alle divinità. La “corda” tesa nella base delle colonne prende nome dalla fune pesante.

Altri elementi delle colonne oltre ad avere un analogo contenuto umano, probabilmente si rifacevano ai riti e agli strumenti della caccia, come i listelli, le verghe, le aste delle lance suggeriscono trofei di caccia e di battaglia.  

Hersey ci propone una singolare ed interessante interpretazione rituale sacrificale della genesi dei templi. In principio, probabilmente erano “alberi rituali o sacrificali” sui quali i vincitori appendevano sui rami gli avversari penzolanti uccisi in battaglia. I soldati appesi, col tempo, sono diventate colonne e la chioma degli alberi il timpano del tempio. Dovevano essere un omaggio alle divinità da ringraziare per la vittoria sul campo. 

John Boorman regista di Excalibur, film cult del 1981, inscena dopo una battaglia un albero rituale al quale Parsifal temporaneamente sconfitto verrà appeso, vicino ai poveri resti di altri soldati sconfitti. Allo stesso modo, nei secoli, il bucranio e altri resti di animali sacrificali, un tempo appesi nell’area sacra dei templi, sugli alberi e sulle pareti delle celle, sono diventati parte integrante dei fregi e dell’apparato decorativo dorico, ritmando triglifi, bucranio e ghirlanda. 

Le aree sacre dovevano essere costellate da altari sacrificali, di alberi sacri rituali. Ogni divinità aveva il suo: Apollo l’alloro, Afrodite il mirto, sui quali venivano appese le offerte e sulle pire davano fuoco ai resti dei sacrifici animali, di altre donazioni od offerte, come le ciocche di capelli delle fanciulle. “Nei primi tempi vi era l’usanza di bruciare l’intera vittima sugli altari degli Dei, e a volte per espiare un crimine commesso” (Apollon, Rhod. III .1030, 1209). Il sacrificio conferiva sacralità al rito. Diventava la congiunzione con le divinità. 

Abbiamo un’idea molto diversa delle aree sacre, dei templi e dell’architettura classica, forse eccessivamente idilliaca ed edulcorata, contemplativa e assertiva, negli ultimi secoli forse è stata eccessivamente idealizzata. Invece, nelle aree sacre si compivano sacrifici di ogni genere, potevano essere cruenti o incruenti e l’odore dei velli o dei capelli bruciati delle vergini doveva essere particolarmente pungente. 

Allo stesso modo, abbiamo un’immagine molto diversa dei templi e delle sculture, molte di queste nell’antichità erano colorate. L’astrazione, il candore mono materico e monocromatico ai quali siamo abituati non rivelano gli antichi canoni, a volte, anche la loro ricerca di umanizzazione del sacro. 

* L’articolo è in parte la sintesi di una piacevole conversazione dal titolo “Costruire è atto sacro”, all’interno di un palinsesto radiofonico di 14 puntate, presso Radio Zammu (radio dell’Università degli Studi di Catania), curate da Giuseppe Scannella e Tiziana Longo.  

Le conversazioni sono state trascritte e pubblicate in un libro dal titolo, “30 minuti di architettura. Conversazioni per non architetti” a Cura di Giuseppe Scannella e Tiziana Longo, ed.  Malcor D, 2020.

(1) Stefano Moffa Passamonti “IL POZZO DI SANTA CRISTINA E’ IL PANTHEON PRIMA DEL PANTHEON”.

Photo by Vicenzo Latina, ritratto di Francesco Venezia dall’interno del Pozzo Nuragico di Santa Cristina Paulilatino OR