Dal Design dell’Abito all’Home Decor
Bernard Rudofsky nel volume di presentazione della mostra Architettura senza architetti (Architecture without Architects, catalogo della mostra di foto di Bernard Rudofsky al Moma, New York, 1964, diventato manifesto dell’architettura Vernacolare) propone una interessante riflessione dell’origine dell’abitare degli umani, i quali hanno molto probabilmente appreso, condiviso o ricevuto dai Primati un incentivo alla protezione e al riparo temporaneo.
Rudofsky cita il libro di Charles Darwin, “L’origine della specie”, pubblicato nel 1859, (Opera cardine della storia scientifica. Dalle deduzioni scientifiche trarrà la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale) osservò che alcuni oranghi nelle isole dell’Estremo Oriente e gli scimpanzé in Africa costruivano delle piattaforme sulle quali dormivano. Poteva essere una reazione istintiva o delle deduzioni logiche di due specie animali che vivono luoghi diversi. Gli umani, a differenza degli scimpanzé, molto probabilmente hanno avuto l’impulso primordiale di protezione rifugiandosi nelle grotte naturali, e poi, in seguito che abbiano appreso come realizzare o utilizzare impalcature ariose di loro creazione. C. Darwin, constatò che l’orango si copriva di notte, allo stesso modo sotto una pioggia intensa con le foglie del Pandanus; anche A.E. Brehm (Alfred Edmund Brehm (1829 – 1884), scrittore e biologo tedesco) notò che uno dei suoi babbuini si proteggeva dal calore del sole estivo coprendosi la testa con una stuoia di paglia.
Da tali deduzioni si è ipotizzato che probabilmente le origini dell’abitare degli umani e le origini dell’architettura e dell’abbigliamento siano derivate dalle abitudini dei primi progenitori dell’uomo. Solo che i Primati, a differenza degli umani, non hanno mai sentito la necessità di coprire il corpo e di costruire ripari stabili.
La necessità di dotarsi di un “abito”, di un riparo è una prima forma di abitare la terra.
Abito. Deriva dal latino habitus ed ha la stessa origine semantica di habitat. Deriva dal latino habere, avere. In seguito è diventato vestimento. Generalmente si riferisce all’abbigliamento che portiamo, ai vestiti che ogni giorno abitiamo.
Abitare. Habitàre, allo stesso modo ha una radice comune che deriva dal latino habere, avere. Nel caso specifico significa continuare ad avere, ovvero vivere ed avere la consuetudine in un luogo: abitarvi.
Abitare è anche assumere abitudini, ovvero le relazioni umane ripetute con lo spazio circostante. Il ripetere delle azioni e l’interagire con un luogo, oltre ad originare le abitudini, determinano anche lo stile di vita. Sono le scelte consuete dalle quali scaturisce una peculiare empatia e un legame tra gli umani e i luoghi che si vivono, che si abitano. Scegliere di abitare un luogo potrebbe essere assimilato all’esigenza di vestire indumenti, e attraverso questi definirne la nostra identità.
Abito (da abitare) è anche la memoria degli oggetti, da non confondere con ricordo o nostalgia, è una relazione affettiva che emoziona, che ricorda sentimenti di esperienze vissute.
Architettura, non è solo l’involucro, la “scatola esterna” che contiene gli ambienti, le stanze, gli arredi, è anche la costruzione dello spazio dell’uomo, che è lo specchio delle persone, della comunità e della società.
La domesticità ormai sembra fuori moda, relegata alle persone di età avanzata, invece è necessario ritrovarla nelle pause, dai ritmi frenetici e nevrotici contemporanei, è ritrovare nei luoghi un benessere psicofisico, sia nelle relazioni personali, sia con gli oggetti e gli spazi che viviamo. La disposizione degli arredi, delle suppellettili, il loro ricordo, la memoria di questi, il loro colore e calore e le azioni umane comuni generano un microclima affettivo, dal più elementare ambiente come la camera di una casa, sino alle relazioni complesse che si svolgono all’interno di un bosco o in una piazza. Anche una, strada, una piazza, un parco possono generare delle esperienze affettive, simili a quelle domestiche, se ci si riconosce o si ritrova nella familiarità dei luoghi.
Attraverso una piccola e domestica finestra, un affaccio, una porta, una soglia o una loggia si può interagire con il macroclima esterno, costituito da tutto ciò che costruisce un luogo (dalla città alla campagna, dal quartiere alla strada, al traffico urbano. Che si relaziona con la dimensione cosmica: le stagioni, il sole, il vento, le nuvole, gli eventi meteorologici, il clima. Sono soltanto alcune delle molteplici interazioni che si instaurano in un ambiente domestico).
La domesticità non è la semplice composizione o disposizione di oggetti e ambienti, si può favorire anche con la padronanza della sintassi compositiva, la relazione culturale e sentimentale che si stratifica nella vita vissuta, è anche la capacità di innescare dei dispositivi, è dosare la luce in una stanza dove è necessario, e allo stesso tempo, modularne sapientemente e dolcemente l’ombra.
Anche in una stanza costituita da “semplici e scarni” muri intonacati si può scoprire l’esaltazione della profonda e intensa bellezza, anche attraverso un affaccio; la vista di un albero, una montagna, del mare, un lago o della città. Le geometrie elementari di una semplice stanza trovano, se ben calibrate, esaltazione attraverso gli spigoli, attraverso gli angoli e il “conflitto” o se si preferisce il confronto delicato luce-ombra.
Una casa, un alloggio è prevalentemente una sequenza di stanze e di pareti, le quali trovano senso e carattere attraverso l’interruzione e il ritmo di una o più porte o finestre. Louis I. Kahn nel 1973 asseriva che “la stanza è l’inizio dell’architettura. È il luogo della mente. Fra gli elementi di una stanza il più meraviglioso è la finestra… che fettina di sole ha la tua stanza?”.
Senza evocare la sintassi formale di Louis Kahn si potrebbe apprendere la relazione parete-finestra come una non indifferente potenza espressiva ed evocativa che ognuno può mettere in atto.
Il muro non è da assumere soltanto a struttura portante o di tamponamento, dovrebbe diventare altro, un contenitore di luoghi e di esperienze, importanti risulteranno il suo spessore, le imposte, il registro e il ritmo tra finestre e le superfici opache. Allo stesso modo la dimensione delle finestre, il loro orientamento, la trasparenza o l’opacità dell’infisso, il riflesso e il riverbero della luce al suolo, sul pavimento o sui mobili.
Tutto ciò definisce una peculiare sensazione che alcuni definiscono come atmosfera.
Il pulviscolo rivelato da un raggio di sole, può accentuare e misurare la profondità degli ambienti, la loro dimensione, e a volte modificarne la percezione.
La relazione tra finestra e muro è una delle più elementari espressioni dell’architettura, ne è l’essenza. Purtroppo molti architetti moderni hanno perso il senso di ciò.
Mi sovvengono alcuni quadri di Vilhelm Hammershøi, le atmosfere domestiche del pittore danese dell‘800, le sue suggestioni nordiche, la dimensione intima del raffigurare prevalentemente gli interni della vita, nella quale pervade un senso di quiete quotidiana all’interno delle abitazioni.
Hammershøi è un maestro della luce nordica, luce fioca che misura gli ambienti dai quale trae suggestioni uniche. Anche se per alcuni, le sue opere trasmettono un senso di malinconia, e le ambientazioni prediligono le gradazioni del grigio, rappresenta una peculiare luce nordica.
Dalle finestre degli ambienti domestici, dalle tipiche alte vetrate entra un chiarore velato che dona agli interni una peculiare luminosità fioca che rende bene l’atmosfera del Nord Europa, del sole che filtra timidamente e che a sua volta crea una “gamma sinfonica di grigi”. Una luce avvolge ogni cosa, dal paesaggio agli interni delle architetture. (da: Vilhelm Hammershøi, il pittore del silenzio che anticipò Edward Hopper. Testo di Ilaria Baratta. Finestrelle sull’Arte 23-06-2019).
Hammershøi è stato definito da alcuni critici un prosecutore della pittura di genere di Vermeer e un anticipatore di Edward Hopper. Allo stesso modo di Vermeer le sue opere sono caratterizzate da uno spiccato lirismo delle ambientazioni, della vita domestica davanti alla finestra, e attraverso la sua luce ne restituisce atmosfere uniche di architetture degli interni.
I Nordici attribuiscono peculiare senso e valore alla luce, sarà dovuto alle latitudini? Al forte contrasto tra l’estate e l’inverno pressoché privo di sole? Non a caso la festività di Santa Lucia è molto sentita in Svezia.
Peter Zumthor, sovente propone una riflessione sulla bellezza dei luoghi, la loro familiarità e l’intimità come uno stato d’animo “una qualità dello spirito che dallo spazio costruito si trasmette immediatamente a chi lo osserva, a chi lo abita, a chi lo visita, perfino a chi vi si trova nei dintorni.” (Dalla prefazione del volume dal titolo Atmosfere. Ambienti architettonici. Le cose che ci circondano, edito da Electa)
La bellezza, oggi è pressoché confusa con l’azione spettacolare, la vertigine, il capogiro, il sensazionalismo, l’estemporaneo, l’illuminazione tout court, o all’inverso da un minimalismo esistenziale, ascetico per monaci tibetani; la società contemporanea sembra anestetizzata dagli eccessi, dalla velocità delle informazioni e del consumo delle esperienze, tutto ciò si riverbera anche nell’ambiente domestico.
Sarebbe utile ritrovare dei momenti in cui riscoprire il piacere delle pause, del silenzio e delle sospensioni, come quelle ricercate dal compositore John Cage, così da migliorare la capacità d’ascolto, e per chi ha sensibilità anche il suono del silenzio.
Bisogna riscoprire un’educazione all’ascolto, allo stesso modo della visione, della percezione e delle esperienze; una educazione “sentimentale” verso gli altri, nelle relazioni interpersonali, familiari o domestiche; verso i luoghi: città, piazze, strade, le scuole, le case, le stanze e ogni ambiente umanizzato.
Oggi, invece tutto si consuma rapidamente ed è in continua sostituzione, col rischio di generare una società anaffettiva, che non riesce a conferire una equilibrata percezione dei valori, per cui, tutto rischia paradossalmente di diventare oggetto temporaneo, di disvalore, di consumo, da sostituire o da aggredire.
Il sostantivo Abito (anche l’abitare) è stato rapidamente sostituito dall’Outfit (composto di out ‘fuori’ e fit ‘essere adatto, appropriato) che a differenza del gusto e della misura e della probabile (anche se non richiesta) sartorialità del capo d’abbigliamento significa “equipaggiamento completo”, inteso come somma di più capi di vestiario coordinati, alla moda.
Accade sovente che i più giovani acquistino online dei capi d’abbigliamento senza poterli provare. L’importante dell’outfit è avere un look accattivante, che rappresenti lo stile di una persona, quasi sempre di una modella o di una influencer, che indossa e a sua volta invoglia all’acquisto di vestiti coordinati.
Se Abito è anche abitare su misura, l’Outfit potremmo associarlo all’attuale moda dell’home decor che ha gran successo su Instagram. Allo stesso modo dell’attuale tendenza, l’accumulazione coordinata di arredi alla moda, di soluzioni che propongono alloggi con maggiore Appeal così da avere maggiore Glamour.
Sovente si costruiscono case con pareti vetrate continue, anche quando non ce né bisogno, alcune di queste con orientamenti in latitudini impossibili. La luce a volte con grande vigore inonda ogni cosa, ogni oggetto, se d’inverno, al di là della coibenza, può regalare piacevoli e serene visuali, d’estate un orientamento poco accorto fa diventare accecante e rovente ogni relazione.
Si sa bene che per apprezzare appieno la luce c’è bisogno dell’ombra, queste elementari relazioni frutto di una saggezza millenaria, delle esperienze maturate sembrano d’un tratto smarrite dal furore del moderno.
Molti architetti e designer contemporanei sono diventati o sono stati sostituiti dai fashion blogger o dagli influencer che hanno trasformato l’abito in outfit anche in architettura.
I capi d’abbigliamento (anche costosi) alla moda, sono stagionali, ed è normale che si possano acquistare per una infatuazione temporanea, l’abitazione invece richiede arredi e suppellettili di maggiore durata, che al di là del gusto personale superino l’effimero del temporaneo.
Viviamo la continua rottamazione dei mobili, delle poltrone e dei divani, degli elettrodomestici e di molte suppellettili, tutto ciò può ingenerare una disaffezione verso i luoghi. Tutto diventa temporaneo, in successione, e la società dei consumi produce continuamente oggetti ad obsolescenza programmata.
Lo stesso sta succedendo nelle relazioni umane, nelle esperienze.
Abitare, dovrebbe avere un carattere maggiormente performante, così da assumere abitudini relative anche alle caratteristiche specifiche del luogo stesso. Le ripetute interazioni con i luoghi danno origine ai comportamenti, allo stile di vita. Il legame esistente tra noi e il luogo (il territorio e la casa) è come scegliamo di abitarlo, di indossarlo e definire la nostra identità.
Riscoprire in che “abito” abitiamo, quali siano i gesti automatici e i comportamenti di routine, e come risvegliare la dolce meraviglia del consueto e delle azioni profonde. Tutto ciò potrebbe aprirci nuove esperienze, nuove vie verso la consapevolezza della casa che si abita che “vestiamo”, con la speranza di non cambiare ossessivamente e rapidamente abito e abitudini.