Il Daimon di Renato Rizzi

Caro Renato, se dovessi leggere queste mie riflessioni fiume, scritte di sera tardi con telefonino come note sparse, spero che perdonerai qualche inesattezza, alcune sviste, personali memorie alla rinfusa

Renato Rizzi è ostinato e deciso, un combattente puro, tenace come il carattere della sua terra, come Rovereto.

Se dovessi fare un paragone siracusano, da Rovereto proveniva Paolo Orsi, tra i più grandi archeologi del ‘900, un “nordico” trasferito al sud, ispettore di III classe degli scavi e dei musei a Siracusa, “si dedicò prevalentemente all’esplorazione e all’illustrazione archeologica della Calabria, soprattutto, della Sicilia”. 

La città di Siracusa gli è stata così grata da avergli dedicato il Museo Archeologico Regionale, un Istituto Comprensivo, a detta di molti il più blasonato della città, e il principale asse viario d’ingresso alla città, per l’appunto “viale Paolo Orsi”.

Anch’egli è stato un combattente, per avere un’idea, nei primi anni del ‘900 Paolo Orsi andava in alcuni siti da esplorare a dorso di mulo accompagnato da un carabiniere, tanta era la sua tenacia e le pressioni a cui era sottoposto. 

Orsi doveva sembrare un marziano, ha rinunciato ad importanti incarichi di docenza per restare sul campo. 

Ma, ora torniamo a Renato Rizzi, del quale mi fregio di un’antica amicizia, anche lui di Rovereto sarà sembrato simile ad un marziano, un po’ come Paolo Orsi. 

Celebri sono state le divergenze con Peter Eisenman per la collaborazione giovanile del ricercatore con il professore americano alle prese con un progetto, o con Massimo Scolari per il bellissimo progetto del Museo della cultura Egizia del Cairo. Ma Rizzi non è persona facile, nel senso che ha un’impostazione forte e decisa dell’architettura, salda e ben radicata nella filosofia.

L’università e L’Accademia.

Ho seguito le sue complesse vicende accademiche, la moltitudine di concorsi accademici che lo hanno costantemente “bocciato”, nei quali hanno vinto figure “opache” inquadrate nei ranghi.

Ricordo bene i suoi sfoghi, le delusioni e la rabbia mai celata, mai sopita.

Bocciatori seriali, uniti in combin per impartire una lezione al professore non allineato.

Ma lui è duro come la roccia delle Alpi e tenace e come le gocce d’acqua che scavano solchi.

Gocce, è anche un mio blog in InarchPiemonte, “ognuna delle gocce con la sua azione continua nel tempo, tempo lungo, si spera che possano diventare stalattiti e stalagmiti, cosi da congiungersi e formare colonne ipogee. Pilastri sotterranei. Piccole semplici e insignificanti gocce sotterranee, che si spera possano formare strutture. Piccole gocce oltre a costruire spaccano”, come ben sappiamo la pietra più dura.

Questa doppia possibilità mi piace molto, e Renato Rizzi ha saputo coglierla.

Il suo carattere è in apparenza “spigoloso” ma, con gli amici è gioviale e generoso, per cui molti detrattori hanno fatto leva del suo carattere “deciso” dipingendolo in passato come una sorta di montanaro dell’Architettura cocciuto e scorbutico. 

È il prezzo che si paga all’invidia.

In molti ho sentito la famosa frase di circostanza, quasi consolatoria, “il tempo è galantuomo”. Tutto quello che gli è stato tolto in passato, da alcuni anni sta tornando in positivo, moltiplicato, con una recente messe di riconoscimenti, mostre e l’attenzione nazionale ed internazionale, sono qualcosa di straordinario, come la recente nomina di Accademico di San Luca e il Premio Presidente della Repubblica 2017 per l’Architettura.

A differenza di altri, non è una meteora dell’architettura italiana, da qualche decennio popolata da “piazzisti” di ogni genere.

Il Teatro Shakespeariano di Danzica 

I progetti di Rizzi sono atemporali, fuori moda e allo stesso tempo contemporanei, cariche di spazi rituali, sembrano architetture egizie dei tempi moderni. Alcune opere sono iconiche, si caricano di potenti immagini, di Visioni. Se non c’è visionarietà le immagini soltanto diventano poca cosa, sono come un buon vino annacquato.

L’opera più conosciuta è il Teatro Shakespeariano di Danzica che ha posto Rizzi all’attenzione internazionale. Si tratta di un autentico capolavoro d’architettura contemporanea, un edificio in apparenza antico, Egizio, dalle molteplici valenze, politica, culturale, urbana e storica. Un’icona dell’architettura odierna. 

Il suo progetto ha saputo innescare un duplice dialogo tra l’architettura in laterizio e i suoi due estremi: il suolo e il cielo. Il rapporto dicotomico tra i due elementi è bilanciato dal radicamento forte e severo al terreno e dal rarefatto scambio etereo reso possibile dalla grande macchina di luce posta sulla sala. I percorsi orizzontali esterni sono laconici e potenti, scandiscono il ritmo del corpo, il suono dei passi, un’eco, una ritualità antica, processionale.

Le ali, o le mani aperte verso il cielo della grande sala erano e sono l’aspirazione di una nazione che dopo decenni di oppressione Sovietica si è liberata dall’asfissiante legame. E che raggiunta l’agognata libertà manifesta la sua vocazione alla luce.

L’apertura del tetto è opera titanica, di grande fascino. Qualsiasi dotato architetto avrebbe escogitato la soluzione più facile, ma Renato va oltre, e allora immagina una teoria di grandi leve che ruotano e sollevano il grande sbalzo, generando qualcosa di spettacolare, da far perdere il fiato. 

Un teatro totale, dall’interno tutto si regola tramite assi percettivi, persino la platea ma, alzando gli occhi verso l’alto si coglie “Il quarto «palcoscenico»: quello rivolto al cielo di Danzica, al cielo di Shakespeare, al cielo interiore di ognuno di noi”.

Il ritmo modulare delle nervature murarie che struttura il volume del teatro è dettato dalla necessità di assorbile le forze delle ali aperte del tetto verso il cielo, le quali scaricano nel sistema murario sottostante il loro peso e le pressioni dell’aria e dei venti boreali. 

Decine e decine di tonnellate che si sollevano e che come per miracolo sembra che assumano leggerezza, come la libertà e la democrazia: pur apparendo facile e scontata richiede una grande esercizio. 

I numeri sono importanti, i rapporti proporzionali e modulari hanno una peculiare valenza simbolica, se si vuole cabalistica. L’edificio con le ali aperte raggiuge i 24 metri di altezza, il rapporto ascendente di progressione verticale genera una sorta di Diapason di livelli alle quote 6, 12, 18, 24 metri.

In pianta, il tutto assume la figura di un diapason con l’asse maggiore orientato est-ovest.

I forti contrasti tra i materiali, tra la sala rivestita interamente in legno chiaro e il possente reticolo della copertura di color nero, sono anche in questo caso un abile equilibrio tra opposti.

Lo stesso slancio di libertà e democrazia che di recente muove il popolo Ucraino. Ma questa è un’altra storia. 

Matteo Piazza, eccellente fotografo d’architettura, ha scattato una delle più affascinati ed emblematiche foto d’architettura contemporanea. Una foto fortunata, ha colto a distanza Renato sul tetto del Teatro di Danzica che osserva dall’alto l’interno della sala attraverso le grandi leve che strutturano la copertura, simili ad ali schiuse, rivolte al cielo. Una foto che potremmo intitolarla “il cielo sopra Danzica”. Tale rarefazione ricorda alcune immagini o sequenze del capolavoro di Wim Wenders. Allo stesso modo, la foto di Piazza nutre l’immaginario comune che vale quanto molti blasonati “curriculum immobiliari” degli architetti di grido. 

Da una confidenza di chi ha seguito il cantiere del Teatro si apprende che Rizzi non era convinto di alcuni corpi illuminanti, ma, nonostante il suo diniego, è stata disposta ugualmente la loro collocazione. Durante una visita in cantiere, prese un bastone poggiato a terra e ne ruppe buona parte.

Dopo qualche giorno gli dissero che Giuseppe Terragni, allo stesso modo, per la selezione di alcune lastre di marmo di rivestimento della Casa del Fascio di Como procedette ad una attenta valutazione “una per una”, tuttavia si trovò in cantiere diverse lastre di minore qualità non concordate, e pronte al montaggio. Armato di mazzuolo da muratore le frantumò, così avrebbe avuto la certezza che non le avrebbero utilizzate.

Saputo ciò, Renato, mi dicono che sia andato in visibilio, a ben ragione.

Il cantiere è il luogo del conflitto, simile ad un campo di battaglia, nel quale collidono diversi interessi e ragioni.

La qualità generalmente non è opera di abili piazzisti, ma di persone esigenti.

Anche quando la potente moglie di un’autorità polacca non voleva i mattoni, così scuri, per il Teatro di Danzica, ma nulla da fare, Rizzi allo stesso è riuscito nel suo intento.

Anche il cantiere di una delle sue emblematiche opere prime, il centro sportivo di Trento del 2003, non fu di facile gestione. Quest’ultimo ha un’impostazione asciutta che dichiara nel contrasto il rapporto tra architettura e paesaggio, nel quale la rigorosa stereometria dei volumi e all’inverso la natura delle montagne sullo sfondo strutturano un evocativo equilibrio degli opposti.

La copertura, a differenza del massivo basamento impietrato è costituita da fitta trama di travi Vierendeel che smaterializzano lo spazio rendendolo rarefatto, secondo una “indicibile” percezione piranesiana. Il complesso cantiere lo ha messo a dura prova e, dopo un aspro diverbio con impresari e fornitori, un giorno si trovò la porta dello studio danneggiata.

Mi disse, “sono cose che succedono”, quando si lavora bene può accedere.

La didattica

Rizzi non lascia libertà alla fantasia, come se il progetto scaturisse dalla creatività. AHimè, molti docenti disimpegnati ne fanno largo uso, seguendo le mode del momento. Diventando così non ricercatori ma divulgatori. Ma la ricerca non è per tutti, richiede perseveranza, ossessione, decisione e solcare ambiti inesplorati e poi tornare costantemente sui propri passi, per ripetere l’esercizio, quasi sino allo sfinimento. 

Allo stesso modo dell’archeologia che non è roba da Indiana Jones imberbe. Allo stesso modo dei grandi atleti che ripetono decine e decine di volte l’esercizio, Rizzi prepara gli studenti alla costruzione dello spazio, ad una lettura scarna da orpelli, in cui il modello non è consolatorio, anche se il risultato finale è allo stesso modo spettacolare; il modello non è ammiccante, compiacente, all’inverso è materia pura, mono-materiale, spazio e astrazione. 

I calchi realizzati dagli studenti durante gli anni dei corsi sono qualcosa di prezioso, sono documentati in procedure degne di un antico cerusico o un farmacista che preparava la medicina. Notevole è il testo “Il Daimon di Architettura manuale” in due volumi, il primo teorico e l’altro pratico, che documentano minuziosamente l’intero processo di ideazione e realizzazione dei modelli.

Ha scritto un protocollo delle fasi di realizzazione dei modelli, scandito nel tempo, nella gestualità da ripetere, una precisione tagliente che a molti sbadati osservatori potrebbero sembrare gabbie didattiche, invece l’esito è completamente diverso, una poetica della percezione della restituzione spaziale, dalla bellezza soltanto può nascere la fascinazione, la didattica vera. Il resto rischia di diventare nozionismo. 

I modelli che fa realizzare, sotto ferreo controllo del docente e degli assistenti, sono autentici gioielli. La precisione e la maniacale cura sono una delle cifre, bisogna continuamente misurare per restituire lo spazio, avere il senso della misura. I modelli restituiscono topografie, territori, monumenti e architetture vivisezionate. Opera allo stesso modo di uno studioso di anatomia, taglia, seziona il corpo con fare di un anatomopatologo dell’Architettura.

Se per alcuni studenti il corso risulterà particolarmente difficile e selettivo, ho diverse volte ascoltato entusiasti studenti che mi hanno raccontato la loro esperienza nel corso di Renato Rizzi.

Se i materiali che oggi consuetamente utilizziamo come carte, inchiostri, supporti di ogni genere sono scadenti, sono facilmente degradabili, non supereranno cinquant’anni, i modelli realizzati dagli studenti, sono esposti nei musei, nelle gallerie d’arte, hanno caratteristiche decisamente migliori, potremmo dire senza tempo. 

In questi giorni tra le centinaia di modelli realizzati, alcuni sono esposti all’Accademia di San Luca a Roma.

I libri di Renato richiedono preparazione, sono carichi di simbolismo, metafisica, filosofia, di religione abramitica, con riferimenti alla cabala o al Talmud, o al simbolismo antico per cui risulteranno ermetici.