Una Resilienza a dir poco…“Spettacolare”
In questi giorni si discute nel Parlamento di Recovery Plan, il sostantivo Resilienza è entrato in ogni casa, in ogni discorso. Bisognerà immaginare e prevedere un futuro diverso per investire le enormi risorse che dovrebbero arrivare dall’Europa.
Per l’Italia potrebbe essere un’occasione unica.
In questo difficilissimo periodo bisognerebbe pensare veramente per le future generazioni, in grande, ma anche con sobrietà.
Pensare al rilancio del sistema produttivo, del sistema sanitario, e invece si ripropongono ancora programmi “BIG” come se nulla fosse successo.
I Politecnici, le Facoltà, i Dipartimenti di Architettura sembrano ancora di più “frastornati”, hanno perso il “peso” politico e la riconoscibilità, forse non l’hanno mai avuta abbastanza. Alcune di queste istituzioni sono ormai chiuse nel fortino ideologico della genealogia e del presunto “purismo”. Altre, rincorrono ogni refolo di vento, della moda, della tendenza, sono simili a dei service territoriali, con l’esito di trovarsi “evaporati” nel caos contemporaneo.
In assenza di ciò, le “GRANDI IMPRESE” sono promosse da amministratori a dir poco “visionari”, in smania di “grandeur”, attenti alla promozione e al marketing territoriale. Alla ricerca del landmark e della ribalta mediatica.
Il Museo del Mare di Zaha Hadid per Reggio Calabria, proprio in questo periodo, sembra francamente eccessivo, fuori tempo massimo e, per il contesto, “fuori luogo”. Un programma così ambizioso per una città ed una regione che evidenzia ben più importanti problemi e carenze strutturali.
Dai render si percepisce una struttura gigantesca e 50 milioni di euro sembrano sottostimati per un museo di tale dimensione.
E poi per riempirlo di cosa? Costerebbe almeno altri 50 milioni.
Trovarsi a luglio edifici “ustori” e lamiere arroventare sotto il sole cocente.
Mentre la sanità e le strutture essenziali della Calabria sono in estrema sofferenza.
Da una mia riflessione del 2017, oggi più attuale che mai, Dall’Architettura spettacolare all’architettura dell’emergenza: “… Gli edifici dell’eccesso riproducono effetti sintomatici associabili al disturbo da sindrome bulimica, proponendo un’ansia insaziabile di rappresentazione formale ed evocazione di suggestioni immediate.
Le strutture di tali edifici sono continuamente sottoposte ad un intenso esercizio “fisico”, ricordano degli aitanti bodybuilder nel clou dell’esercizio ginnico; queste sembrano “anabolizzate” da terapie ingegneristiche per esprimere il massimo dell’esercizio.
Sono sovraccariche di sbalzi, resi possibili da ciclopiche strutture metalliche reticolari. Si tratta prevalentemente di modelli composti da colossali telai metallici, che sorreggono un intricato reticolo di tralicci in acciaio e orditure secondarie. L’immagine che da esse emerge è l’apparente omissione del peso, migliaia di tonnellate che, necessariamente, dovranno scaricarsi al suolo in aree puntuali.
A tale scopo, per rendere gli edifici sinuosi, fluttuanti, galleggianti, i service dell’ingegneria sono costretti ad elaborare programmi di calcolo sempre più complessi, alcuni derivati dalla sperimentazione militare, col risultato che tali edifici sono costretti a “divorare” una incredibile quantità di acciaio.
La struttura viene prevalentemente celata all’interno di “profilattici”, rivestimenti composti, da membrane di polimeri “spalmati”, o da laminati industriali “tesi” su telai bloboidali, che mostrano effimeri volumi e configurano una apparente lievitazione. Sono edifici in attesa di un alito d’aria, pronti a prendere il volo come una farfalla o fluttuare leggeri come una bolla di sapone.”
Si tratta prevalentemente di progetti autoreferenziali che propongono nuove visioni attraverso l’inserimento di improbabili landmarker in cui il contesto diventa un fastidioso ostacolo da eludere.
Vengono omessi i luoghi del progetto, che diventano semplicisticamente dei contenitori, meri scenari di rappresentazione.
L’indifferenza al contesto è una scelta per liberare edifici galleggianti come “turaccioli” o per inserire oggetti di design simili ad utensili reperibili nelle cucine alla moda. Per lo più si tratta di oggetti carichi di ego, prodotti come caffettiere, oggetti “solitari” che gli architetti di “grido” propongono in ogni continente.
Si assiste ad anacronistici e narcisistici esercizi ginnici, con notevole e dispendioso impiego di mezzi e risorse. Tali edifici mettono a dura prova le languide casse degli enti promotori, sia pubblici che privati, facendo lievitare esponenzialmente il budget d’appalto, anche di 3-4 volte rispetto alle previsioni iniziali dei costi, in fase di definizione esecutiva e di realizzazione. Più che ad edifici, questi risultano associabili a delle infrastrutture complesse e interconnesse. Sono quasi completamente scomparsi, invece, i temi della casa sociale, delle attrezzature per la sanità, delle scuole e dei centri di assistenza.
Vittorio Gregotti in un lucido e pungente articolo del Corriere della Sera del 5 agosto 2009 dal titolo L’architettura si è liquefatta: Il mondo di Flash Gordon al posto dei modelli antichi nota come “Abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, senso della storia in generale e di quella dell’ architettura in particolare, responsabilità civili e di disegno urbano sono i principali nemici delle illustrazioni progettuali di Zaha Hadid.”
Per Gregotti il progetto si deve “insinuare” per definire il luogo ed il contesto “il nuovo fondato sulla differenza.” Invece i progetti di Zaha Hadid sono “il ritratto della […] dissoluzione (del luogo, al fine di) […] far posto ai mondi stellari di Flash Gordon. Tutto deve essere curvo e sghimbescio: aerodinamico, appunto”.