Le grandi opere sono, appunto, “grandi”: per dimensioni fisiche, per la quantità di energie e risorse che richiedono, per la scala del territorio coinvolto, per gli obiettivi che si propongono, per i tempi di realizzazione, per la dimensione politica che rappresentano. Proprio quest’ultimo concetto richiama immediatamente la dimensione simbolica che una grande opera deve contenere: deve essere innovativa, deve esprimere la coesione e l’ambizione di una comunità organizzata, deve rappresentare la dimensione dello “straordinario”, al contrario dunque delle azioni di governo dirette a soddisfare i fabbisogni “ordinari”; si parla di grandi opere proprio per sottolineare un evento “eccezionale” rispetto al corso “ordinario” della gestione del territorio.

Nel periodo del “boom economico”, l’Italia si impegnò a fondo per recuperare il distacco che la separava dai moderni stati europei. Era un’Italia che portava su di sé le tracce della sconfitta, ma anche una buona parte della arretratezza economica, sociale, culturale il cui superamento, secondo alcuni storici, era stato – con scarsa lungimiranza – affidato dall’imprenditoria al Fascismo, nella illusoria speranza che attraverso di esso si sarebbe compiuta la modernizzazione del paese.

Toccò dunque al secondo dopoguerra mobilitarsi per raggiungere quegli obiettivi. Le realizzazioni in quel periodo riguardano pressoché tutti i settori, dallo sviluppo di una industria moderna, alla produzione di energia, alle autostrade, alle canalizzazioni, alla realizzazione di opere residenziali e servizi sociali, fino alla creazione di istituti pubblici specificamente destinati a guidare e sostenere un progetto di vigorosa crescita, come la Cassa del Mezzogiorno e l’IRI. Tutto questo, in un clima generale in cui l’avanzamento prepotente delle tecnologie, della entità di flussi di persone e merci, del posizionamento degli attori e della collocazione dei progetti di investimento, costituiva la metafora trainante, che raccoglieva facilmente energie, risorse e immaginari politici. Ma lo scenario (mettendo per il momento da parte il giudizio sul merito, sulle forze e sugli interessi in gioco) era chiaro, in buona misura stabile e univoco e riconducibile a logiche saldamente legittimate dalla generale mobilitazione verso la “modernità”.

Oggi, in un contesto storico e in uno spirito del tempo sensibilmente cambiati, in Italia e nel mondo, il tema delle “grandi opere” (ammesso che sia legittimo ricondurre indiscriminatamente i diversi progetti a questa categoria) pare rivelare una serie di ambiguità e contraddizioni che ne trasmettono un senso molto diverso da quello di allora: gli scenari sono incerti, sia dal punto di vista delle categorie tecnico-scientifiche e delle scale geopolitiche (pianeta, continente, nazione, città….), e sia dal punto di vista delle finalità, delle logiche e dei soggetti che concorrono alle scelte; i concetti stessi di “crescita”, di “progresso”, di “sviluppo” e, prima ancora, di “modernità” sono stati sottoposti ad una discussione profonda, che ne ha fatto emergere i limiti e le criticità. L’ambiente e il territorio sono sottoposti a sensibili modifiche per ragioni climatiche, economiche, sociali in rapido divenire; il deflagrante e vorticoso sviluppo delle tecnologie impone ricadute dirette anche sui processi produttivi e sulle caratteristiche dei prodotti, dei consumi, sui flussi; questo quadro pone continuamente nuovi interrogativi sulle caratteristiche delle infrastrutture di prossima generazione. 

A questo panorama instabile e affollato di voci dissonanti, in cui risulta sempre più complesso e incerto riconoscere opportunità e minacce, si aggiunge, con un ruolo affatto secondario, la forza devastante di una crisi prolungata e pervasiva che ha propagato ansia, smarrimento, frustrazione, in segmenti di società sempre più ampi, fino a coinvolgere quelli che ricoprivano fino a qualche decennio fa, un ruolo trainante nella trasformazione: la piccola borghesia operaia e artigiana, le élite culturali e scientifiche, il mondo della formazione e dei servizi, il settore del risparmio e quello delle piccole e medie imprese….In questo clima di ripiegamento e disorientamento, le infrastrutture, che fino a ieri rappresentavano una “dote” capace di far crescere la competitività urbana, tendono oggi, nell’affermarsi della cultura del “cambiamento”, ad essere piuttosto percepite come elementi invadenti, come minacce alla qualità della vita, come simboli di una cultura tecnica fondata sulla pretesa di dominare la natura piuttosto che di convivere con essa.

Oggi la “grande opera”, nella sua accezione consolidata, sembra diventare, più che un coraggioso progetto per accelerare lo sviluppo, una metafora, utilizzata da chi rappresenta la continuità con il passato, per rassicurare sulla stabilità dell’orizzonte di riferimento. Questo, in uno scenario geopolitico profondamente mutevole, in una paradossale incongruenza tra le percezione dello scenario intorno a noi alla scala globale e a quella locale, tra politica e società, tra individuo e collettività. Alla scala globale, il configurarsi di connessioni e flussi che certo destabilizzano equilibri e sicurezze consolidate, ma che – se governate piuttosto che subite – lasciano intravedere opportunità per alimentare nuove e positive dinamiche produttive, sociali, politiche; a scala locale, la percezione sempre più evidente del disagio sociale, dell’esaurirsi delle energie propulsive, di un territorio e di un ambiente costruito “ordinario”, che ha raggiunto punte di degrado allarmanti e diffuse, dove il fabbisogno di interventi di risanamento sistematici e capillari si scontra ogni giorno con l’assenza di risorse e con una scarsa disponibilità ad affrontare i problemi al di fuori della loro dimensione “emergenziale”.

In conclusione, è vero che le “grandi opere” in buona misura si innestano su politiche di infrastrutturazione dei piccoli o grandi insiemi territoriali, aumentando il loro livello di omogeneità, ma è altrettanto vero che le loro motivazioni discendono da paradigmi non sempre adeguati a rispondere ai cambiamenti in atto; che la promessa funzione di “catalizzatori” di crescita resta tutta da verificare e che quegli stessi paradigmi che ne sostengono le motivazioni, spesso prevaricano la specificità culturale, fisica e storica dei luoghi e incrementano l’allarme delle popolazioni locali. 

Nella cacofonia delle voci che si intrecciano, nella estenuante attesa che si rendano riconoscibili le competenze, le logiche, i soggetti cui spettano scelte e responsabilità, nella specificità tecnica di campi di conoscenze complesse (dalla geopolitica, alla trasportistica, agli aspetti giuridici) e spesso fondate su prospezioni, piuttosto che su dati oggettivi, credo che l’opinione pubblica fatichi a maturare scelte di merito (al di là delle polarizzazione di parte e dell’emotività), capaci di coinvolgere e mobilitare i cittadini ad esprimere direttamente un mandato politico. Nello stesso tempo e per analoghe ragioni, credo che tracciare un bilancio costi/benefici definitivo e convincente, nella pluralità di dati, di interessi, di obiettivi, di metodi di approccio espressi dai diversi protagonisti rappresenti un’illusione; tanto più che l’esito del bilancio è fortemente condizionato dalla fisiologica parzialità dei dati immessi (funzionali, ambientali, gestionali, sociali, di scala, di arco temporale, di ricadute occupazionali ed economiche….), a maggior ragione quando il compimento delle opere sia proiettato in scenari temporali opachi, offuscati dalla profonda fluidità dei fenomeni del nostro tempo e quando, come oggi sta avvenendo, la consapevolezza politica generale converge verso prospettive sempre più circoscritte nel tempo e nella dimensione della condivisione di interessi comuni. Più che di “grandi opere”, mi pare si tratti in questo momento storico di “grandi scommesse”, lanciate su un tavolo da gioco imprevedibilmente mutevole; nell’immaginario popolare, per essere dei buoni scommettitori bisogna averne il talento e lo slancio. Le scommesse  si possono anche vincere, ma in un campo di aleatorietà tale da rendere concreto il rischio di non arrivare a vederne il compimento e rivelarsi un imperdonabile spreco di risorse; nel frattempo, le risposte alle tante piccole opere di cui il territorio continuamente ci ricorda l’urgenza restano sospese.

Resta da chiedersi (ce lo chiediamo in molti e da molto tempo) se, come scrisse Bernardo Secchi nel 1996, non vi sia spazio, nella varietà delle strategie, non solo (e non tanto, aggiungo io) per programmi di grandi opere, quanto per grandi programmi di piccole opere.

immagine tratta dal film Fitzcarraldo di Werner Herzog (1992)