In vista delle elezioni politiche del prossimo 4 marzo, IN/Arch Piemonte ha rivolto ai candidati alcune domande sul futuro delle scelte legislative in tema di architettura e territorio.
Ecco le risposte che ci hanno scritto Giorgio Airaudo (Liberi e Uguali), Pier Luigi Cavalchini (Verdi Piemonte Lista Insieme), Alessandro Cherio (Noi con l’Italia), Silvia Crisman (Verdi Piemonte Lista Insieme), Umberto D’Ottavio (Partito Democratico), Stefano Esposito (Partito Democratico), Marco Grimaldi (Liberi e Uguali), Giuseppe Mastruzzo (Movimento 5 Stelle), Roberto Rosso (Noi con l’Italia), Anna Rossomando (Partito Democratico) e Alberto Sasso (Movimento 5 Stelle).
Inoltre, un video con le risposte del Ministro della Giustizia Andrea Orlando (Partito Democratico).
DOMANDA N. 1
L’attenzione sempre più acuta verso la sostenibilità, la fragilità dell’ecosistema, l’urgenza di orientare le strategie di sviluppo nazionale verso la tutela e la valorizzazione dei patrimoni culturali e paesaggistici che ne costituiscono una delle principali ricchezze, rendono ineludibile l’esigenza di una “legge sull’architettura” che ne sancisca il valore di bene comune, necessario alla crescita delle personalità individuali e collettive, di strumento di qualità territoriale e di coesione sociale, come sollecitazione ad esercitare la “cultura del progetto” per tornare a parlare di futuro.
Ritenete che una “legge sull’architettura” possa rivestire una reale utilità per il Paese, e vi proponete eventualmente per contribuire concretamente alla sua redazione e promulgazione?
Sembra che si sia smarrita la capacità di fare architettura, di proporre stile e bellezza, e più che altro, in generale, di sapere interpretare i bisogni dei cittadini.
A questo punto ci si domanda con urgenza che cosa non stia funzionando, da dove nasce il problema, e ci chiediamo se “lo Stato”, attraverso i suoi strumenti di Legge, può venirci in aiuto e può ridare dignità architettonica al nostro territorio.
E allora dobbiamo distinguere, per non ingenerare equivoci, tra una “nuova legge urbanistica” e una nuova “legge sull’architettura”. Sono decenni ormai che tutto il mondo delle costruzioni e dell’architettura invoca con forza una semplificazione radicale e profonda dell’attuale impianto legislativo urbanistico, divenuto davvero un fardello inestricabile di norme e regolamenti attuativi scoordinati, che appesantiscono e deformano gli interventi edilizi, se non rendendoli, in taluni casi, inattuabili proprio per bisticcio di norme non coordinate.
Quindi, da questo punto di vista, è certamente necessaria una nuova Legge “zero” sull’Urbanistica.
Ma una Legge, ci domandiamo, potrà da sola innescare anche una rinnovata “bellezza” architettonica?
O meglio, cambiando gli addendi della domanda, una “architettura” rinnovata può essere determinata per “Legge”?
La nostra opinione è che ciò sia possibile se, e solo se, si riesce ad individuare con onestà e pragmatismo quale sarà lo scenario futuro della nostra società.
Per tentare di rispondere al quesito, mi permetto di citare il pensiero di due grandi architetti contemporanei:
Rem Koolhaas “La città del futuro non cancelli le radici”.
Richard Mayer “quello che conta è il rapporto degli edifici con l’elemento umano, lo ‘human scale’: la città deve essere sempre a misura d’uomo, come una qualunque piazza Storica d’Italia”.
Ecco allora che incomincia a delinearsi la strada a cui tendere, una strada che promuova una alta qualità urbana che si coniughi con l’esigenza di sostenibilità ambientale ed economica.
Una “Legge” che non imponga canoni estetici personalistici, che non detti condizioni rigide e teoriche, che riesca a svincolarsi da normative farraginose, ma che accompagni i progettisti e le imprese nel ridisegno delle nuove città italiane, promuovendo innanzitutto un “cultura” del bello, un’ambizione a raggiungere il massimo della qualità, a rispettare la dignità delle utenze tutte, uno stimolo a ritrovare il nostro DNA migliore.
In questo senso una “legge sull’architettura” diventa un elemento essenziale per un nuovo rinascimento. Con queste premesse siamo favorevoli ad impegnarci nella sua redazione e promulgazione, in stretto accordo con tutte le componenti attive della società, della cultura e con la loro concreta partecipazione.
È indispensabile che anche in Italia sia redatta e approvata una legge sull’architettura che possa far compiere un salto avanti a quel settore che è sempre stato visto – soprattutto da chi vi è coinvolto – come conservatore, poco innovativo e sensibile alla corruzione. L’Italia deve promuovere l’eccellenza anche dal punto di vista dell’architettura contemporanea, non con esempi singoli sparsi sul territorio che dipendono dalla buona volontà dei sindaci o dei privati, ma con una progettazione integrata che coinvolga tutte le sfere del vivere sociale e promuova il concetto di benessere della vita partendo dall’ambiente antropizzato, che spesso è solo un veicolo economico mentre deve diventare luogo di incontro, di scambio, di partecipazione. L’esempio della regione catalana può essere un modello da cui partire per una Legge nazionale e ancor di più europea.
È necessario sostenere alcuni requisiti fondamentali delle costruzioni, che devono essere idonee innanzi tutto da un punto di vista statico, dal punto di vista della loro collocazione nel rispetto dei criteri di sostenibilità delle aree protette e a rischio idrogeologico e per il loro impatto energetico, che dovrà essere il più basso possibile migliorando la qualità di tutto il patrimonio edilizio esistente. Gli edifici che inquinano di meno pagheranno aliquote più basse. La progettazione dovrà tener conto del crescente bisogno di socializzazione creando spazi comuni, condivisi che saranno incubatori di coesione sociale. Progettazione partecipata per tutte le aree urbane con tavoli aperti ai cittadini. Mappature delle aree a rischio sociale o con rischi per la sicurezza ambientale e programmi temporizzati di intervento. Controllo di tutto l’iter della trasparenza dei concorsi e degli appalti pubblici con la possibilità, anche per i più giovani e per chi non abbia mai lavorato nel settore pubblico, di inserirsi con semplicità e trasparenza.
Ci proponiamo per la redazione di una legge ad hoc in collaborazione con l’Ordine degli Architetti perché si possa valorizzare l’immensa bellezza del patrimonio esistente in Italia in un connubio con l’innovazione tecnologica e architettonica.
È inoltre importante che la committenza pubblica svolga un ruolo centrale, promuovendo iniziative strategiche di rigenerazione urbana, mirate anche al coinvolgimento dei committenti privati.
Cruciali, nei prossimi anni, saranno le azioni legislative ma anche di sostegno della cultura del progetto e conseguentemente dell’architettura: anche gli architetti italiani devono essere a pieno titolo coinvolti nella trasformazione del paese.
Una legge sull’architettura in Italia dovrebbe avere come centro l’attenzione ai beni, ai territori, al paesaggio, e come obiettivo la qualità del progetto e la trasparenza delle procedure negli appalti per la realizzazione di opere pubbliche, superando il criterio del massimo ribasso, dove il risparmio abbassa la qualità dell’intervento.
Va quindi attuato un forte programma di manutenzione, tutela e salvaguardia attiva del patrimonio, avviando una proficua cooperazione tra Università, pubbliche amministrazioni e Soprintendenze.
Nella legislatura appena conclusa come deputato ho firmato la proposta di riforma presentata dalla collega Serena Pellegrino per inserire nella Costituzione il concetto di “bellezza” come valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico.
Il viatico per una legge sull’architettura, perché occorre varare anche in Italia una legge per il diritto e la tutela dell’architettura come espressione dell’identità culturale nazionale.
Il Ministero dei Beni culturali sta lavorando ad una proposta di legge, un impegno che porteremo avanti.
La legge per l’architettura, dal mio punto di vista, riguarda i beni comuni che costituiscono un insieme di valori simbolici ed economici per la collettività, e può rappresentare uno degli interventi per la ricostruzione del valore del lavoro dei ceti intermedi, oggi sottoposti a un processo di proletarizzazione, il cui ruolo è vitale per il funzionamento democratico del Paese.
Mi adopererò, per questi motivi, a raccogliere consenso intorno a questa iniziativa legislativa.
Definizioni chiare e regole semplici, facilmente comprensibili, che consentano un confronto trasparente, che non limitino il dibattito e le scelte alla valutazione del solo ritorno economico, certo indispensabile, da parte del decisore pubblico. Non possono essere solo gli oneri di urbanizzazione o quelli di valorizzazione l’obiettivo finale. Così facendo si è distrutto il valore della “filiera delle costruzioni” che va dalle imprese ai fornitori, dai professionisti agli artigiani, privilegiando i grandi gruppi finanziari il più delle volte assolutamente indifferenti alla qualità del prodotto finito nel suo impatto sociale ed architettonico.
Per lungo tempo si è guardato alle professioni con lo sguardo rivolto al passato e raffigurandosele nella loro fisionomia ottocentesca, liberale e in qualche modo privilegiata. Ma anche quando il legislatore ha inteso avvicinarvisi con un segno di modernità, spesso lo ha fatto in modo alquanto “brutale” ed a volte ideologico, leggendo la modernità con la chiave iperliberista che divide il mondo fra grandi imprese e consumatori, senza riconoscere i cittadini. Una visione che, oltre ad aver danneggiato in modo pesante l’economia – la più grave crisi da quasi un secolo a questa parte –, ha generato la regressione del mondo professionale nel sistema sociale, dall’appartenenza al ceto medio ad una sostanziale proletarizzazione. Certo a ciò ha anche contribuito un atteggiamento difensivo delle professioni stesse, spesso incapaci di individuare nuove prospettive di trasformazione da indicare in modo autorevole ed univoco alla politica.
Oggi tuttavia, durante questa legislatura, abbiamo avviato un modello di approccio che non guarda più alle professioni come ad un problema da risolvere, direi liquidare, ma come risorsa indispensabile per generare un nuovo modello di sviluppo incentrato sul sapere e sui valori che fanno leva sulla conoscenza. Nello specifico dei settori che fanno parte del sistema che interviene sul territorio, i temi del risanamento idrogeologico e antisismico del territorio, della riqualificazione urbana, e soprattutto della ricucitura delle periferie, hanno molto a che vedere con i saperi insiti nelle professioni e nelle capacità di intervenire in modo innovativo sull’esistente. Insieme a ciò, le politiche fiscali e legislative sulla semplificazione procedurale sono elementi connessi di grande valore che costituiscono, nella nostra visione, l’oggetto dell’impegno per proseguire il lavoro intrapreso, anche correggendo provvedimenti sbagliati del recente passato, quale il tema dell’equo compenso, per ridare dignità al lavoro intellettuale.
In questo quadro di riferimento, per venire alla prima delle vostre specifiche domande, è evidente che una legge sull’architettura, da anni attesa dagli addetti ai lavori, non solo come riconoscimento dell’oggetto dell’interesse di una specifica categoria di professionisti ma come elemento di qualità delle nostre città e della vita dei cittadini che le abitano e nelle quali lavorano, studiano, trascorrono il loro tempo libero, è una necessità improrogabile e deve essere oggetto di attenzione sin dall’inizio della legislatura con il necessario coinvolgimento di tutti i soggetti coinvolti.
DOMANDA N. 2
Malgrado le prospettive di moderato ottimismo, la crisi di questi ultimi anni ha inciso e continuerà a incidere anche sulla soddisfazione di fabbisogni primari: l’emergenza abitativa è collegata al costo della casa, alla persistente urbanizzazione, all’insufficiente intervento pubblico, ma anche alla crescita degli sfratti e del numero di senza tetto (nei report degli analisti si affaccia ora il settore dei “poor home owners”, prossime vittime della crisi). L’emergenza abitativa è aggravata dalle calamità naturali e dai flussi migratori, costituisce una realtà diffusa soprattutto nelle grandi aree metropolitane, pregiudica la dignità delle persone e l’esercizio dei diritti individuali, peggiora i fenomeni di diseguaglianza, di marginalizzazione e minaccia la coesione sociale. Paradossalmente, cresce il fenomeno dell’invenduto nel mercato immobiliare, continua lo svuotamento dei centri minori e la desertificazione dei territori montani, mentre il patrimonio pubblico inutilizzato fatica ad assumere un ruolo coerente nelle strategie di governo.
Qual è la vostra opinione in merito alla utilità di un programma nazionale per l’edilizia sociale, da avviare partendo dal recupero del patrimonio esistente (caserme, edifici industriali da riconvertire, ecc.), dalla diffusione di forme di affitto calmierato e, più in generale, dallo studio di nuovi modelli abitativi che possano contribuire alla integrazione sociale e alla qualità dei territori urbanizzati?
Ritengo inoltre assolutamente prioritario agevolare il recupero del patrimonio esistente iniziando a riconsiderarne il valore di cessione, il più delle volte sovrastimato rispetto al valore reale. Tale aspetto non è da sottovalutare in quanto costringe le imprese ad abbandonare il progetto; e, a fronte della scarsità di risorse pubbliche, l’intervento dell’investitore privato è indispensabile per dare una risposta alla crescente domanda di case a valori calmierati, sia in affitto che in proprietà.
La politica di uno stato moderno non può permettersi di non occuparsi del problema, lasciando i propri cittadini in balìa di eventi economici e sociali non gestibili singolarmente.
Lo Stato ha il dovere e la necessità di avviare e realizzare un programma abitativo serio dedicato alle classi socialmente deboli. E lo deve fare in fretta e bene, prima che diventi troppo difficile da controllare. E lo deve fare senza ripercorrere gli errori del passato e di altri stati: non ci devono essere ghettizzazioni, non ci devono essere “banlieu”, non ci deve essere il seme del degrado, prima ambientale e poi morale, presente in tante realtà del mondo occidentalizzato.
In questa direzione un po’ di aiuto ci proviene dall’Europa, con finanziamenti derivanti dai fondi FESR per l’innovazione dei centri urbani. Dobbiamo imparare a dialogare con le nuove tecnologie per arrivare ad ottimizzare le possibilità oggi a disposizione puntando al raggiungimento di quartieri SMART, tali da apportare benessere ai cittadini con costi bassi e servizi di qualità.
Quartieri “modello” dai quali traspiri la straordinaria atmosfera della nostra cultura, e siti produttivi di “eccellenza” possono fungere da catalizzatori di nuove energie e di nuove attività economiche, anche provenienti dall’estero.
Realizzare una funzione attrattiva cercando di utilizzare il denaro derivante dalla trasformazione delle aree, non soltanto per pagare i debiti delle P.A. ma anche, e per la maggior parte, per agevolare il processo economico del territorio.
Nel caso, ad esempio, di nuovi siti industriali/terziari/artigianali, cercare di agevolare fiscalmente e finanziariamente gli insediamenti: costo dell’area, costo dell’energia, oneri comunali e quant’altro, dovrebbero essere decisamente ridotti, almeno per i primi cinque anni di insediamento.
Pubbliche Amministrazioni e Istituti Bancari certamente dovranno compiere pesanti sacrifici iniziali (ma non dovrebbe essere quella la loro funzione?) per poi averne però benefici nel medio e lungo termine.
Nel caso delle residenze, si tratta di applicare la medesima filosofia: offrire, ad un prezzo molto calmierato, residenze di alto livello energetico e di qualità ambientale “a misura d’uomo”, per incentivarne l’acquisto e l’utilizzo, e, di conseguenza, garantire un ritorno economico dell’investimento, sia in termini di rivalutazione del bene, che in termini di forte attrattiva alla residenza.
L’emergenza abitativa soprattutto nelle aree metropolitane deve essere risolta, ed immaginare di riutilizzare il patrimonio pubblico riqualificando e recuperando caserme, edifici industriali dismessi da riconvertire può essere una strategia utile, sempre ponendo una grandissima attenzione ai fenomeni di disuguaglianza e puntando alla coesione sociale.
Un ruolo centrale avranno le future strategie di governo con nuovi modelli abitativi, con la diffusione di nuove forme di affitto, generando così integrazione sociale e qualità dei territori.
Nel nostro programma per rispondere al disagio abitativo crescente abbiamo proposto due punti: attivare un nuovo Piano casa senza consumo del suolo che metta sul mercato alloggi in affitto calmierato e vendita calmierata; creare un fondo permanente destinato agli inquilini morosi incolpevoli.
Quindi proponiamo la mappatura degli edifici abbandonati e un piano di recupero degli stessi: caserme, edifici industriali, vecchie cascine possono essere ottimi contenitori per creare nuove soluzioni abitative che abbiano spazi condivisi comuni nei principi del cohousing; queste nuove tipologie dell’abitare possono sicuramente ricreare la dimensione del rapporto di vicinato e di sostegno reciproco che si sono persi nella dimensione cittadina. Lo stesso modello può funzionare anche per l’accoglimento degli immigrati, che potrebbero essere coinvolti nella gestione degli stessi centri e nella formazione di comunità di anziani dove aiuto reciproco, riduzione della complessità e dei costi di gestione delle attività quotidiane sarebbero solo alcuni dei lati positivi derivati da una maggior socialità.
Deve essere comunque chiaro che ogni intervento del legislatore, tanto nazionale che regionale, deve tendere ad un normale utilizzo delle abitazioni, con l’obiettivo di riportare le eventuali condizioni di favore – o di incentivazione – a fasi comunque circoscritte e tendenzialmente temporanee.
Noi proponiamo infatti di inserire il principio della sostenibilità sociale, ambientale ed economica nella Costituzione.
In generale, però, la risposta a una serie di diritti che riguardano accoglienza, dignità, diritto allo studio, cultura e socialità si scontra molto spesso con un nodo determinante, che è quello di non disporre di edifici necessari per ospitarli in modo appropriato e capace di contribuire alla qualità urbana.
Paradossalmente lo stato e le istituzioni pubbliche dispongono di un patrimonio vasto, troppo spesso sottoutilizzato, sommariamente censito, che viene ancora più spesso considerato per il suo valore commerciale più che per l’opportunità di costruire strategie di intervento. Occorre una lucida pianificazione delle risorse pubbliche e una chiara strategia di utilizzo del patrimonio, limitando le dismissioni agli immobili che non rivestono più interesse pubblico.
Anche se quasi l’80% dei cittadini vive in casa di proprietà, esiste un serio problema di qualità delle abitazioni e di sostenibilità economica, insieme alla necessità di rispondere alle nuove esigenze abitative oltre che alle vecchie emergenze.
La cultura della riduzione del consumo di suolo impone di intervenire in via prioritaria con la riqualificazione urbana dell’esistente e la riconversione di spazi e vuoti non solo industriali. Credo che rispondere alle esigenze di abitazione che pongono non solo gli immigrati, ma soprattutto i giovani, potrebbe essere un grande motore per un rilancio dell’edilizia abitativa con concezioni molto diverse dal passato: sempre meno legate alla mera proprietà, ma un utilizzo funzionale. Su questo dovrebbero cimentarsi di nuovo le cooperative a proprietà indivisa e le agenzie territoriali della casa.
Possono essere disponibili, ad esempio, risorse per progetti di rigenerazione urbana destinati all’inclusione sociale e ad interventi di potenziamento e recupero del patrimonio pubblico esistente per incrementare la disponibilità di alloggi sociali e servizi abitativi per categorie fragili.
Nel nostro paese ci sono 7 milioni di case sfitte, pari al 22% del patrimonio immobiliare.
In questa situazione occorrono interventi a livello locale e nazionale che inducano i grandi proprietari immobiliari, come banche e fondi immobiliari, a immettere sul mercato case a prezzi calmierati.
È, inoltre, urgente offrire risposte concrete all’emergenza abitativa adottando misure e incentivi rivolti al recupero del patrimonio edilizio esistente, utilizzando in primo luogo i beni di proprietà pubblica, oggi non censiti e sottoutilizzati, e gli immobili confiscati alle mafie.
Questo si potrà fare attraverso tecnologie di contenimento dei consumi, e incentivando lo sfruttamento delle fonti di energia alternative.
DOMANDA N. 3
Il corpus normativo, gli strumenti e le pratiche che caratterizzano il repertorio materiale delle azioni di governo del territorio alle diverse scale, con la sua arretratezza e le sue farraginosità, con la proliferazione e sovrapposizione di soggetti, competenze, procedure, con la affermazione di categorie inadeguate alla contemporaneità, costituisce per gli operatori, per gli enti e per le istituzioni locali un campo d’azione incerto e tortuoso.
Non sono mancate iniziative che, sovrapponendosi a questo quadro, hanno costituito concrete opportunità per aggiornare l’ordinamento di settore e introdurre innovazione nelle forme di intervento e nei processi partecipativi (dai diversi settori della sicurezza e della tutela del patrimonio culturale e ambientale, al risparmio energetico, al codice degli appalti, fino alla introduzione del dibattito pubblico per le grandi opere), pare tuttavia mancare uno sguardo di insieme, che affronti in modo integrato i diversi temi che convergono sul settore delle costruzioni e del governo del territorio.
Quale effettiva efficacia attribuite a questi recenti provvedimenti? Ritenete che un nuovo quadro legislativo semplificato e integrato (che non deve significare omologato e standardizzato) in materia urbanistica possa costituire una priorità per il nostro Paese, in grado di sostenere lo sviluppo e insieme restituire alle rappresentanze politiche elette democraticamente il ruolo di principali protagonisti delle scelte di indirizzo e controllo dei processi territoriali?
In prospettiva dobbiamo andare verso la conversione ecologica dell’economia, da attuare attraverso la riduzione dei consumi energetici, l’efficientamento della casa, della mobilità e dei trasporti, la diffusione delle energie rinnovabili, e l’incentivazione fiscale deve premiare le attività “pulite” dal punto di vista energetico.
Un altro tema da affrontare con maggiore coerenza è l’avvio di una politica industriale del settore edilizio con misure che favoriscano l’accesso al credito anche per le piccole realtà aziendali, qualifichino gli operatori, permettano l’innovazione e promuovano il rispetto della legalità e della sicurezza.
Le politiche territoriali devono essere trasversali, direi quasi apartitiche, perché devono rispondere ad esigenze abitative e territoriali a beneficio di tutti i cittadini e di tutte le imprese.
Guai a dirigere “ideologicamente” una politica urbanistica ed ambientale. In questo senso la politica dovrebbe creare i meccanismi ed i presupposti normativi, fiscali, economici, affinché si realizzi con continuità nell’arco di qualche decennio un serio progetto di riqualificazione urbana e territoriale.
Riteniamo che un’efficace riforma urbanistica debba orientarsi ad uno sviluppo sostenibile dell’ambiente che tenga altresì conto del contestuale processo di sviluppo economico.
Una riforma funzionale alle moderne esigenze di riqualificazione dovrà valorizzare la sinergia tra pubblico e privato, garantire certezze di tempi e di regole, coniugare redditività degli investimenti ed esigenze della collettività.
Si tratta ovviamente di creare le premesse per la progettazione e l’attuazione di una pianificazione urbanistica finalmente moderna ed integrata.
Una politica sostenuta con interventi adeguati di carattere giuridico-fiscale (stabilizzazione di incentivi, perequazione urbanistica, procedure innovative per favorire trasferimenti di cubature) e con una stretta collaborazione tra rappresentanze del mondo produttivo ed enti locali finalizzate a creare le condizioni per sinergie fondamentali, comprendenti in particolare la facoltà per gli enti locali di concludere accordi con i privati per realizzare interventi attuativi dei programmi di pianificazione fissati dagli enti pubblici competenti.
Sicuramente bisognerà nella prossima legislatura mettere mano alle normative in materia urbanistica per contribuire a uno sviluppo innovativo e sostenibile del territorio restituendo importanza, oltre che alle rappresentanze politiche territoriali, anche ai professionisti che devono contribuire alla redazione di un piano di sviluppo del territorio.
È necessaria una semplificazione del quadro legislativo urbanistico-edilizio. I progettisti sono spesso burocrati e la maggior parte del loro lavoro si basa sulla compilazione dei documenti allegati alle tavole e non sul processo creativo, come dovrebbe essere. Una classificazione delle aree e degli interventi ammessi uniforme per tutti i comuni italiani: il primo passo. Il secondo: una chiarezza normativa che impedisca la difformità di interpretazione da parte dei singoli comuni, cosa che attualmente avviene con le leggi nazionali.
Pensiamo per esempio se tutti i dati delle imprese, inclusa la regolarità contributiva, si potessero inserire automaticamente solo con l’inserimento della partita iva. Il DPR n. 445/2000 e la successiva Legge 183/2011 prevedevano che le amministrazioni pubbliche dovessero acquisire d’ufficio le informazioni già in loro possesso, queste leggi non sono state mai rese operative da sistemi informatici scollegati e che presentano delle difficoltà di gestione del software.
Un sistema legislativo più semplice potrebbe favorire le tempistiche dei processi di ricostruzione nei casi limite, per esempio dove siano avvenuti terremoti o alluvioni.
Quanto poi al “dibattito pubblico per le grandi opere”, i Verdi tengono a precisare che – oltre alla doverosa audizione e compartecipazione di tutti i “portatori di interessi” riguardo alle grandi opere stesse – sarà fondamentale, comunque, chiarire sulla base di quali prospettive, finalità generali e valutazioni di costi e benefici verranno decise le eventuali grandi opere in oggetto.
Negli ultimi cinque anni sono stati varati da Governo e Parlamento diversi provvedimenti per la semplificazione delle procedure di autorizzazione delle trasformazioni edilizie, per l’incentivazione degli interventi per la riqualificazione energetica degli edifici e per la prevenzione nelle zone a rischio.
Occorre adesso, però, lavorare per stabilizzare gli incentivi fiscali, sistematizzare e rendere più semplice il quadro normativo di riferimento sulle trasformazioni del territorio.
Troppe sovrapposizioni di competenze e procedure intralciano chi – siano essi gli enti pubblici per quanto attiene al loro ruolo di decisori, piuttosto che i privati che intendono investire – dovrebbe essere messo in condizione di trasformare le intenzioni in azioni in modo trasparente e con metodologie condivise.
Nella farraginosità della normativa i cosiddetti “furbi” la fanno franca, spesso alterando le regole della corretta concorrenza.
In questo come in altri settori occorre che la normativa sia reperibile in un unico corpo e armonizzata nel suo complesso. Occorre però anche creare occasioni di confronto ai vari livelli dell’amministrazione locale, affinché le innovazioni normative siano poi effettivamente operative sui territori; penso ad esempio alla norma del 2016 (nella legge di bilancio 2016) che ha esteso a tutti i professionisti il diritto all’accesso ai bandi europei, equiparandoli alle imprese, indipendentemente dalla forma giuridica. Ciò consente di riconoscere i professionisti come beneficiari dei fondi strutturali europei stanziati, gestiti da Commissione Europea, Stato e Regioni.
Quanto agli strumenti di partecipazione dei cittadini credo che sia una necessità ineludibile ampliarli ed usare di più quelli esistenti dando alle competenze delle professioni un nuovo protagonismo se si vuole guardare al futuro, affrontando responsabilmente il tema delle grandi opere così come quello della salvaguardia del territorio. Lo strumento del “dibattito pubblico” può essere un modo di restituire vitalità ed efficacia al rapporto tra cittadini ed eletti.
DOMANDA N. 4
La “diminuzione del consumo di suolo”, al di là dello slogan, troppo spesso limitato ad enunciati puramente quantitativi, potrà sicuramente costituire uno strumento efficace per contrastare un processo impressionante nei suoi valori aggregati (secondo il rapporto ISPRA 2017 in Italia si consumano 30 ettari di suolo al giorno), oggi apparentemente inarrestabile e di impatto devastante sulla qualità del territorio.
In quale modo ritenete si possa concretamente contribuire a tradurre questo slogan in strumento articolato, flessibile ed efficace per migliorare la qualità del nostro ambiente?
È sbagliato, e talvolta – a pensar male – è un pretesto per concedere interventi in palese contrasto con le esigenze degli abitanti e delle attività di piccola e media dimensione già presenti sul territorio.
Una effettiva volontà di ridurre il consumo di suoli in Italia deve manifestarsi con iniziative anche legislative che premino le amministrazioni che tutelano e rispettano il paesaggio, recuperano l’esistente e riqualificano le aree dismesse.
E qui ritorniamo alla risposta alla prima domanda: la priorità è costruire un quadro normativo semplice per la promozione della qualità del territorio, e su questo investire delle risorse.
Lo si può fare senza consumare un centimetro di suolo in più. Anzi, lo si potrebbe fare restituendo alla comunità la “terra liberata da costruzioni”, sistemata a parco, destinata ad attività ludiche nel rispetto dell’ambiente, sulla quale possono dimorare nuovi alberi, nuovi boschi urbani, nuova flora, ricostruendo piccoli nuovi ecosistemi cittadini. Si può e si deve fare.
Nuovi modelli abitativi certamente, ma inseriti necessariamente in un nuovo modello urbano territoriale.
Le imprese, i progettisti, gli Istituti di credito e le P.A. dovranno cercare di interpretare le nuove esigenze abitative, confezionando prodotti ad hoc. Questo al fine di trovare nuove forme di mercato e, come anche precedentemente scritto a proposito dell’efficienza energetica, abbandonare i modelli di edifici e di quartieri obsoleti dal punto di vista progettuale e compositivo.
Questi nuovi modelli potrebbero incentivare una spinta innovativa tale da giustificare l’apertura di nuove forme di credito e di nuove forme legislative di sostegno.
Sicuramente si deve porre attenzione alla risorsa territorio, evitando espansioni inutili dell’edificato e riqualificando grandi porzioni di territorio, rigenerando aree industriali dismesse, ed ampie zone delle città; ma le opere pubbliche e le grandi infrastrutture importanti per il sistema di sviluppo Italia non possono passare per questa ragione in secondo piano. C’è dunque un problema di equilibrio delicato sul tema del consumo di suolo, una grande opera come il TAV oppure il completamento della tangenziale est di Torino o ancora il prolungamento della Metro 1 e la nuova linea della Metro 2 non possono essere messi in secondo piano o in discussione, da chi in maniera estremista e demagogica assume come puro assioma lo stop al consumo di suolo.
Da questo punto di vista l’obiettivo della diminuzione del consumo di suolo può diventare realmente raggiungibile in modo condiviso anziché, come spesso vediamo accadere, generare conflitti tra “il fare ed il non fare”. Occorrono dunque politiche che, con visione territoriale vasta, possano equilibrare ed incentivare tutele del nostro territorio e dell’architettura e opportunità di investimento e sviluppo.
È oggettivamente impensabile pensare che non si debba più consumare suolo, mentre è assolutamente condivisibile l’idea di definire regole nazionali, attraverso una nuova legge urbanistica, che abbiano la riduzione del consumo di suolo come obiettivo.
Per fare ciò è indispensabile concordare regole che semplifichino ed incentivino gli interventi sul costruito. Soltanto in questo modo si potranno attivare investimenti in questo settore.
Agevolare la demolizione e ricostruzione, riconsiderare l’entità degli oneri di urbanizzazione, estendere le agevolazioni per il risparmio energetico non limitandole a sostituzione di caldaiette o serramenti: questi ed altri sono provvedimenti che potrebbero far compiere un salto di qualità alle nostre città migliorandone la vivibilità ed innescando oltretutto un meccanismo economico virtuoso che solo l’edilizia può garantire sia in termini di PIL che di occupazione.
Per noi Verdi lo stop al consumo di suolo è fondamentale. Deve essere uno stop deciso soprattutto nelle aree protette, a rischio idrogeologico o con un valore ambientale. E deve diventare addirittura negativo, cioè con incremento di aree a verde agricolo o boschivo. Facciamo un esempio con la demolizione degli edifici abusivi. Come trovare i fondi? Concedendo tramite appalti pubblici delle aree edificabili con, al posto degli oneri, il recupero di aree abusivamente costruite. Le cubature concesse nelle nuove aree saranno maggiori ma con superfici minori e quindi con un indice territoriale maggiore. In un processo di questo tipo, che dovrà essere fondamentale anche per tutte le altre opere a scomputo, le parti pubbliche a verde o a parco richieste (in questo caso sulle aree costruite abusivamente) dovranno essere realizzate in contemporanea e finite prima delle nuove costruzioni, requisito fondamentale affinché le opere pubbliche non rimangano incompiute, come è solito avvenire in Italia.
Il patrimonio esistente deve diventare uno strumento flessibile di sviluppo innanzi tutto con il rinnovamento di tutta l’edilizia che richiede un miglioramento dal punto di vista energetico e funzionale, pensiamo alle scuole in primis, in cui il progettista deve partecipare con gli insegnanti al rinnovamento degli spazi con l’obiettivo di creare una scuola non più frontale ma basata sul laboratorio e la scoperta. Proponiamo inoltre la mappatura, da parte di tutti i comuni, del patrimonio edilizio abbandonato anche laddove non ci siano più proprietari o siano plurimi, e incentivi per chi intraprende progetti di recupero.
La perfetta conoscenza della reale disponibilità e del valore intrinseco potenziale di terreni e/o fabbricati, insieme all’accompagnamento pianificatorio partecipato tra portatori di interesse (es cittadini, imprese o altri stakeholders), permette una reale riduzione del consumo di suolo accompagnata da un incremento di qualità sociale degli spazi urbani o extraurbani.