Dai tempi dei primi aggregati insediativi ad oggi, l’idea di città è cambiata in continuazione; anzi, per succedersi di fasi: dal grande accampamento all’insediamento lungo le vie d’acqua o lungo i percorsi delle carovane, alla città fortificata per difendere una comunità da fiere, da selvaggi e predoni, alla “polis”come rappresentazione della cultura civile, al luogo di concentrazione del potere, poi alla città mercantile e poi ancora al fervore caliginoso della città fabbrica, alla prefigurazione mitica del “Progresso”, della Velocità, dell’energia pulsante, alla ricerca su concreti modelli insediativi (ieri le “New Town”, oggi la città porosa, aperta, smart, sostenibile). Fasi legate in parte al mutare dei requisiti e del contesto geografico e demografico, ma (ripensando a Rykwert) in buona parte ancora inconsciamente modellate dai miti di fondazione e dagli stereotipi sedimentati nelle grandi narrazioni: dalla eccezionalità associata ai palazzi del “Principe” o – all’inverso – dalla romantica tradizione di un “volck” idealizzato e stereotipato. L’idea di una razionalità cartesiana come forma univoca del progresso, governata dall’illusione di un deterministico rapporto tra causa ed effetto, ha prodotto alla lunga le derive dello “zoning”; l’ingenuo miraggio di uno “sviluppo” per tutti, di poter disinnescare i conflitti attraverso la oggettività della scienza e della tecnica, ha prodotto le baraccopoli e i distretti del lusso; le raffigurazioni utopiche che hanno riempito la tradizione del Moderno, la città spontanea auto-organizzata (J. Jacobs) e, nell’ultima stagione, le derive fuori controllo del “vivere nel centro città”(IBA 1984-7), hanno contribuito a produrre, insieme a molte esperienze virtuose, anche gli spericolati skyline delle “downtown” e lo “sprawl” suburbano. 

Superato il chiacchiericcio un po’ narciso dei molti architetti che, nel corso della pandemia, hanno cercato di rassicurare l’inquietudine diffusa con la loro personale previsione del futuro che verrà, l’impressione è che oggi, grazie ai nodi venuti al pettine sotto l’ implacabile incalzare del virus, l’idea di città che ha accompagnato il corso della contemporaneità stia nuovamente in procinto di affrontare una svolta epocale.

Dopo le matrici elaborate da Cerdà per Barcellona, da Haussmann per Parigi, da Morris, Rutherfurd e De Witt per New York, per quasi 200 anni quell’idea di “pattern urbano” fatto di pieni e vuoti, di positivo e di negativo, è rimasta abbastanza stabile, incorporata in quelle sue cellule generative, pur nel fantasmagorico mutare dei linguaggi, dei simboli, dei caratteri tettonici, dei paesaggi che si sono avvicendati entro quelle matrici. Matrici hanno continuato a funzionare, fintanto che gli agglomerati urbani hanno goduto della forza attrattiva che l’urbanesimo ha garantito (e che probabilmente ancora garantisce, almeno al di fuori dell’Europa), nonostante gli effetti sul benessere, sulla salute, sulla sicurezza e sull’ambiente che hanno generato. 

Ma neppure il fenomeno delle “città globali” ha, almeno apparentemente, intaccato i “pattern”che identificano la struttura fisica della grande città moderna. Quelle raffigurazioni di rapporto tra pieni e vuoti, di scenografie ostentate sul piano verticale e, in contrappunto, di desolazione e di incuria sul piano orizzontale, ancora accompagnano l’immaginario del nostro disagevole quotidiano, senza tuttavia offrire soluzioni totalmente risolutive. 

Le grandi epidemie e le esigenze di garantire salubrità e benessere, sono state formidabili motori di trasformazioni urbane, a partire dai sistemi fognari ai sistemi ospedalieri e cimiteriali, ai vincoli geometrici prescritti dai regolamenti edilizi. Come scrive Aimaro Isola, la medicina, con lo sviluppo farmacologico, dei protocolli di cura e dei vaccini, ha poi sostituito l’architettura. Ma oggi, a quanto pare, anche la medicina si deve, almeno in parte, arrendere ad una nuova evidenza: i grandi aggregati urbani, per quanto espressione virtuosa di civiltà, hanno portato con se processi in grado di avvelenare quelle stesse città (o parte di esse): l’illusione delle risorse infinite, il consumo programmato delle merci, la trasformazione delle funzioni e delle pratiche sociali in modelli mediatici e di status, la concentrazione esasperata dei nodi e dei flussi, del commercio, della scuola e della sanità, la sicurezza come privilegio, la marginalizzazione degli esclusi, il mito della tecnologia come risposta esaustiva ad ogni contingenza ambientale….

Molti studiosi, esperti, e perfino qualche politico, iniziano a riconoscere il livello di allarme prodotto dalla irreversibile intensità del conflitto tra natura ed artificio, che ha subìto fino a ieri l’arrogante dominio dell’uomo sui processi “naturali”.

Alcuni sindaci e amministratori di città hanno avuto la lungimiranza di associare la propria immagine politica a precise, originali e riconoscibili idee di comunità urbana: la ormai celebre città dei 15 minuti del Sindaco di Parigi Anne Hidalgo, che le ha assegnato fama e autorevolezza sufficienti per essere oggi tra i candidati all’Eliseo; il programma municipalista di Ada Colau a Barcellona, incentrato sugli obiettivi dell’accesso alla casa per tutti e sui “super- isolati”come dimensione aggreditrice di comunità urbana; i programmi del sindaco di Oporto, Rui Moreira, diretti a impedire la gentrificazione e l’iper-turistizzazione del centro antico, attraverso interventi diretti su parti nel nucleo storico da destinare a edilizia economica e sociale …

Le città che investono sul progresso della qualità fisica, sociale e ambientale fanno rete attraverso organismi sovra-nazionali, collocandosi in posizioni di elevata visibilità: la città finlandese di Lahti ha conquistato il titolo di “European Green Capital” per il 2021, e il sindaco di Lahti ha ricevuto ufficialmente l’onorificenza, lo scorso 15 gennaio, dal sindaco di Lisbona, precedente European Green Capital, anelli terminali di una catena formata da Oslo, Copenhagen, Amburgo, Stoccolma.

Ormai molte città, a livello globale propongono piani di trasformazione complessi per il 2030 e il 2050, diretti a raggiungere ambiziosi obiettivi di sostenibilità ambientale, economica e sociale corrispondenti alla agenda degli accordi internazionali sul clima (OSS/SDGs, Sustainable Development Goals). Anche le parole d’ordine stanno cambiando: alla “competizione” tra città si va sostituendo il concetto di “collaborazione”. Non occorre aggiungere che ancora più stringenti sono le urgenze di riorganizzazione degli spazi interpersonali, dei servizi di assistenza, dei luoghi di cura legati alla pandemia di Covid19.

L’Amministrazione civica è il primo interlocutore diretto delle persone che abitano in modo continuativo o temporaneo i suoi territori. Per questo, nel disorientamento, nella disgregazione, nel rancore che pare essersi impadronito dei nostri paesaggi insediativi, la dimensione pubblica della Governance ha forse la sua ultima occasione per affermare un proprio ruolo, una legittimità, un riferimento.

I temi che si affacciano e che ci interrogano sulla necessità di una svolta nelle politiche dei grandi aggregati urbani, chiamano in causa nuovi assetti e nuove configurazioni (non necessariamente nuove edificazioni), o richiamano – almeno in parte – tracce di configurazioni urbane troppo frettolosamente rottamate. E sono strategie tutte profondamente interrelate tra loro; si può partire da ciascun ambito tematico, ma necessariamente si dovranno incrociare gli altri. 

Provo a formularne un elenco approssimativo:

  • Ridefinizione del rapporto tra centralità, tessuto intermedio e margini;
  • Spazi pubblici, spazi aggregativi, beni comuni, reti connettive; 
  • Riforestazione, consumo di suolo, invarianza idraulica, biodiversità, eventi climatici;
  • Prossimità, condivisione, solidarietà, presìdi multifunzionali diffusi;
  • Modelli di mobilità, non tanto in relazione ai mezzi di trasporto, quanto ad una nuova organizzazione delle destinazioni d’uso e dei tempi della città;
  • Comportamento energetico dei singoli edifici e dei sistemi insediativi complessi;
  • Decarbonizzazione, gestione dei rifiuti, circolarità nei processi produttivi;
  • Nuove funzioni urbane, crisi abitativa, dinamica dei nuclei familiari, migrazioni e mobilità sociale, usi temporanei; 
  • Economia e gestione dei bilanci pubblici, nuovi modelli e settori occupazionali, de-occupazione strutturale;
  • Azioni di controllo sul mercato immobiliare delle compravendite, degli affitti a lungo e breve termine.

Questioni che si sommano a quelle, altrettanto urgenti, che riguardano il funzionamento ordinario della macchina urbana, e che difficilmente riusciranno a produrre risultati concreti e integrati attraverso semplici ritocchi, incentivi, implementazioni, atti di indirizzo, azioni sui regolamenti, in tempo utile per evitare il collasso dei modelli di convivenza sociale.

Certo, sono realisticamente lontani i tempi in cui Torino veniva definita una “piccola Parigi”, ma, alla luce delle precedenti considerazioni (probabilmente saccenti e ricercate, ma ho modestamente cercato di allargare gli orizzonti, piuttosto che abbandonarmi a lamentele e recriminazioni) è comunque difficile riconoscere entusiasmo e lungimiranza nelle forme e nei contenuti che iniziano ad animare la prossima campagna elettorale per l’Amministrazione della nostra Città. Si stenta davvero a riconoscere, nei profili e nelle parole d’ordine che affiorano – pur nella distrazione dei media – gli echi di una città dalla tradizione borghese, imprenditoriale, intellettuale, accademica, civile, sportiva, che il ‘900 ci aveva consegnato. Si coglie piuttosto il clima di una città e di un territorio metropolitano prosciugato dalla inesauribile successione di crisi ed emergenze, di un tessuto sociale disgregato, frustrato e imbevuto di risentimento, per essere stato abbandonato da chi li doveva rappresentare, di una rete di attività economiche diffuse inaridita e stremata dalla lunga marginalità in cui è stata confinata, in favore dei grandi “player” di rango internazionale, di una disposizione al progetto, alla ricerca sperimentale, all’impresa, sconfitta e avvilita dalla approssimazione, dal riduzionismo e dalla ristrettezza di orizzonti di precedenti corsi amministrativi, ai diversi livelli sovra e sottordinati di esercizio del governo. 

Non resta, sgretolata la dialettica dei conflitti, che confidare nella imperscrutabile eterogenesi dei fini, nell’“effetto farfalla”, nelle interferenze caotiche che presiedono alla determinazione delle logiche complesse, per esprimere la speranza che qualcosa accada nell’orizzonte di chi si accinge – in tempi tragici – a governare questa Città.

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