Un enunciato come “la città è la rappresentazione fisica della struttura sociale, dei processi economici, della distribuzione del potere, dei valori culturali, delle pratiche sociali che nella configurazione dei suoi spazi e delle sue funzioni trovano accoglienza o vi individuano un limite” trova spazio nel dibattito contemporaneo solo all’interno di esclusivi e sofisticati ambienti accademici; non certo nell’universo discorsivo di chi oggi governa i processi che incidono concretamente sugli aspetti funzionali e fisici della città. Sulla questione della “forma”, nel dialogare quotidiano della tecnica urbanistica, si percepisce disagio e sospetto: la sensazione è che la forma corrisponda ad una categoria irrilevante, residuale se non addirittura da assegnare al superfluo, dunque eticamente inopportuna. Effettivamente, il termine “forma” assume una grande varietà di significati nei diversi contesti a cui si applica e dunque produce facilmente slittamenti di senso; subisce una atavica subalternità al suo ipotetico opposto “contenuto”; il concetto di forma urbana è probabilmente uno dei meno immediati da comunicare ai non addetti ai lavori, dunque difficilmente se ne trova traccia in alcuno dei linguaggi della politica, ne in quello degli esponenti dell’“establishment” ne  in quello del “nuovo che avanza”; se non quando si riferisce ad aspetti puramente contemplativi, come il patrimonio storico o paesaggistico; come se la forma, ossia la ricaduta materiale dell’organizzazione dello spazio fisico, la sua relazione con l’ambiente e con chi ci vive e lavora, fosse estraneo alla dialettica e agli stessi conflitti che muovono il mondo.

Ne prendo atto, e dunque – per parlare della Revisione del Piano Regolatore di Torino – considero poco più che una frase di circostanza il richiamo a concetti come “occasione mancata”,“difficoltà a cogliere la complessità della sfida” o ancora”la montagna ha partorito un topolino”, che non porterebbero ad alcun reale avanzamento del dibattito; limito invece le mie osservazioni a pochi aspetti più immediatamente riconducibili a circostanze e procedure su cui siano minimi i margini di ambiguità di linguaggio. Aspetti che, ad una prima lettura degli elaborati, mi pare rappresentino una pesantissima ipoteca sulle prossime tappe del percorso di approvazione del Piano.

Un primo aspetto riguarda quello che, a mio parere, costituisce una sorta di peccato originale dell’iniziativa di revisione del Piano che, probabile vittima del disinteresse dei vertici della maggioranza consiliare, non ha mai trovato la forza di coagulare intorno a se l’attenzione dei diversi assessorati; negli elaborati pubblicati non si trova traccia di piani di settore che confluiscano nel piano generale, riconoscendogli una superiore regia; lo stesso Piano della Mobilità, che normalmente riveste un ruolo strutturale nel suo costituire un sistema di vascolarizzazione del tessuto urbano, sarà presentato in tempi successivi dallo specifico Assessorato, senza che si dia conto della profonda interrelazione tra spazio pubblico ed edifici. Ciò che ne consegue è che gli elaborati, man mano che la proposta tecnica assumeva la propria forma definitiva, hanno sempre più mostrato l’immagine di una iniziativa circoscritta alle specifiche competenze dell’Assessorato all’Urbanistica, rinunciando ad una strategia organicamente integrata sulla città. Soprattutto ad una strategia che ne affronti concretamente i luoghi fisici, i nodi nevralgici della città in divenire – dalla Manifattura Tabacchi alla Cavallerizza, dal Parco della Salute alle aree oggetto della ex variante 200 (orfane di qualsivoglia indirizzo programmatico), dal momento che l’oggetto trattato in misura prevalente – per quel che appare dalla Proposta Tecnica Preliminare (che del Piano dovrebbe contenere il nucleo programmatico) – sono le regole astratte. Affidarsi alle sole regole, da parte di chi assume il compito di rappresentare il pubblico interesse, significa rinunciare al ruolo di attivatore di processi; in attesa che sia l’iniziativa privata a generare trasformazione, sia pure entro gli ambiti più o meno vincolanti che le norme hanno definito.

Neppure i temi qualificanti, elencati nella deliberazione approvata dal Consiglio Comunale,«la tutela dell’ambiente (consumo di suolo e riuso dell’edificato esistente, risparmio energetico, bonifica dei siti inquinati ed altro ancora), la dotazione quantitativa e qualitativa dei servizi (distribuzione policentrica e metropolitana, centri d’arte e cultura, residenze universitarie, trasporto pubblico e mobilità dolce), la riqualificazione urbana (periferie, edifici degradati e inutilizzati, beni comuni, emergenza abitativa e sociale), il lavoro (incubatori di impresa, rilancio dell’edilizia, commercio di vicinato, mercati di quartiere)» sono riconducibili a specifici fatti urbani, a luoghi, edifici, sistemi, tessuti, paesaggi identificati come fulcri di una strategia di trasformazione.

Una seconda questione appare, a mio parere, cruciale: 

In questi mesi di pandemia, molte sono state le riflessioni, i confronti, le valutazioni e in qualche caso le sperimentazioni, in merito alle condizioni fisiche dell’abitare, del lavoro, dello studio, dell’esercizio dei diritti e dei bisogni materiali e immateriali imposte dall’emergenza sanitaria, e costante era il richiamo agli aspetti dimensionali, alle forme, alla collocazione, alle reti inerenti gli elementi che formano la città fisica, dunque ad aspetti che sono specifica materia del Piano Regolatore. 

Che sussistano strettissime relazioni tra i meccanismi del contagio e le forme insediative, i criteri normativi, le pratiche sociali, i criteri di infrastrutturazione, le gerarchie di valori che presiedono all’organizzazione del tessuto urbano è questione riconosciuta, così come ormai generalmente riconosciuta è la relazione tra pandemia e ambiente. 

Le priorità che hanno da molti anni orientato i criteri consolidati di governo del territorio, sono state velocemente compromesse dalla necessità di contenere la diffusione del contagio: in primo luogo la misura e le caratteristiche degli spazi e il loro livello di connessione fisica e virtuale con il sistema intero; subito dopo la distribuzione dei presidi sanitari territoriali e degli altri servizi di prossimità, la relazione tra tessuto abitativo e nuclei scolastici, commercio, uffici, fabbriche; la disponibilità di luoghi aperti e di verde; la qualità dell’ambiente; le diverse forme dell’abitare …

Non era forse questa, la revisione in corso del PRG, l’occasione migliore per avviare una riflessione che permettesse di riconsiderare il lavoro svolto alla luce di eventi nuovi e recentissimi – totalmente imprevedibili nel momento in cui il processo è iniziato – e di assumere provvedimenti adeguati e concreti per migliorare la qualità urbana sotto tutti gli aspetti, compresi quelli relativi al contrasto di contagi conosciuti e sconosciuti? Invece si è voluto a tutti i costi procedere a passo di carica per garantire l’approvazione della Proposta Tecnica Preliminare entro il mese di Luglio – nel preoccupante disinteresse da parte degli organi di stampa – soffocando sul nascere qualunque tentativo di avviare un primo confronto tra i membri dell’assemblea consiliare, con il pretesto che ci sarebbe stato ampio spazio, nelle fasi procedurali successive, per permettere a tutti (indipendentemente da ruolo di rappresentanza politica) di esprimere le proprie osservazioni).

Foto di Davide Derossi