Immaginare un nuovo futuro? Architetti e urbanisti ci hanno sempre provato, ma, raramente, azzeccato. Bellissimi disegni rimasti sulla carta. La secolarizzazione ha spazzato via profeti e profezie. Le profezie appartenevano al sacro. Anche Gaia, Gea, profetava, ma ne ha combinato di tutte; solo molto tardi, nella decadenza, greci e latini, e noi, l’abbiamo promossa Grande Madre Terra.
Nella modernità, il futuro e il passato si sono schiacciati sul presente; possiamo solo fare previsioni: siamo in grado di prevedere soltanto ciò che è già accaduto. Crisi, catastrofi, pestilenze, guerre. Quelle dovute agli uomini e quelle attribuite alla natura siamo certi che avverranno, ma sempre ci coglieranno impreparati. Raramente sappiamo il come e il quando. In tutta fretta cerchiamo, poi, di esorcizzarle.
Dobbiamo quindi, credo, guardare con occhi sereni al presente e agli attrezzi che abbiamo oggi a disposizione per non ingannare noi stessi con falsi dei. Anche l’Arte e l’architettura, che a lungo ci avevano guidato, nella modernità sembrano averci abbandonato: Arte e Architettura si sono confinate negli spazi autonomi dell’estetica, della critica, del mercato, delle dispute tra addetti, e quindi nel tempo, hanno perso tensione, effettualità con la vita, cioè con quei valori che sono la loro vera ragion d’essere. Ma anche la bellezza sembra oggi sfuggire dai nostri luoghi. Il bello, dopo il divorzio dalla natura con la quale a lungo aveva convissuto, si è rifugiato nell’estetica, mantenuto dal mercato e protetto nei musei e dai collezionisti: le architetture, staccate dalla vita e dalla terra, sollevate su pilotis o innalzate in arroganti grattacieli, hanno vagato tra banalità e spettacolarizzazioni del potere.
Il virus, il dolore, riconducono, oggi, l’attenzione al corpo e sembrano ricordarci la nostra appartenenza ad una natura che si dà nella sofferenza, ma che può anche essere bellezza e bonheur. In qualche modo, la crisi sembra ricomporre ai nostri occhi un pò stupiti, il nesso interrotto che unisce in uno e divide quella bellezza e quella felicità che incontriamo in una tela dipinta così come in un albero e in un prato. Per questo, albero e tela, non possono più essere pensati soltanto come nostri oggetti così come noi ci dobbiamo accorgere di non essere soltanto soggetti nella natura, ma con la natura abitanti di una comune atmosfera, di un solo paesaggio.
Non occorrono, credo, fabbricare utopie né ucronie perché potenzialità e realtà sono già presenti nei luoghi ed il virus e la crisi hanno messo in luce le gravi inadeguatezze dei meccanismi e dei poteri che ci sovrastano, ma anche i limiti e le incertezze dei nostri saperi. Newton aveva certamente ragione, ma anche le morfogenesi di Goethe e Schelling oggi ci possono dare una mano.
Oggi più che mai, per non sentirsi perduti nel “deserto della globalizzazione”, nel tempo in cui appaiono le immagini dei nostri luoghi devastati, enfatizzati, prostituiti, dobbiamo avere il coraggio di proporre sempre nuove immagini, lavorando tra vuoti, sulle faglie dove il mondo si scompone e ricompone, alla ricerca di nuove ragioni di senso: paesaggi di vita, più autentici, concreti, e infine, perché no, anche più attraenti.
Ma quali desideri sono nati in questi lunghi mesi di clausura e di distanziamento? Quali suggestioni e nuovi paesaggi potremmo, potrei, oggi, immaginare e proporre per rispondere con saggezza alle nuove domande?
Ci proverò, ma non mi sarà facile. Sono progettista del presente: un luogo, un committente, funzioni, strutture, materiali, impianti, eccetera, chi lì vive, chi li guarda. Così abbiamo Imparato a scuola, così abbiamo insegnato per lunghi anni. Ora, o forse è avvenuto sempre così, molti paradigmi in cui siamo cresciuti si sono appannati, altri sono saltati, tempi nuovi ci attendono. Oggi un terribile invisibile virus arrivato da oriente, così si dice, ha imposto e sembra veicolare con se possibili, futuri modi di vivere e di abitare… E, forse, pur nell’inerzia della storia, sembra indurre imprevedibili mutamenti anche nel pensare i luoghi dell’abitare.
Tenterò coraggiosamente, come il barone di Munchausen, su una palla di cannone, o come l’Angelus Novus di Benjamin, di sorvolare il nostro spazio a cavallo del terribile virus per vedere che cosa ci sta combinando laggiù, come sconvolgerà i paesaggi dell’abitare o se dopo una pausa, riprenderemo la rotta abbandonata.
Mi appollaierò su un balcone di una casa ad ascoltare gli abitanti che conversano prima durante e dopo il passaggio del virus, percorrerò velocemente la navata vuota di una chiesa, parlerò con il prato, il bosco, il giardino, con il verde che sta davanti alla scuola di provincia, visiterò le sale del museo, camminerò sul marciapiede e lungo il viale urbano, guarderò la facciata di una casa di periferia, un muro di mattoni, una residenza quasi sotterrata, scorrazzerò attraverserò campi, orti, boschi. Vorrei incontrare luoghi a me ancora ignoti, ma, temo, il mio narcisismo masochistico mi farà indugiare, curiosare e osservare come si comportano, oggi, alcuni segni, tracce che ho impresso, nel tempo, sul terreno. Poi, forse sbigottito, porrò al virus qualche domanda. Non sarà cosa facile, perché questo realissimo mostro ci stia guardando con gli occhi ambigui, inquietanti del mito e dell’oracolo, e, come tutti gli oracoli, pone domande, non afferma e non nega, fa segni. Virus: ostis, nemico sterminatore oppure ospes, ospite inatteso, alterità che, come tale, rivela noi a noi stessi? Farmacon, veleno, oppure medicina necessaria per la diagnosi di un mondo malato? Lui, il virus, come tutto ciò che chiamiamo “natura”, non è né buono né cattivo, però è certamente dispettoso, perché mette il bastone nelle ruote di un progresso che corre sfrenato. Il suo volto è il terribile inguardabile volto di Medusa.
Con stupore, appena decollato, mi accorgo che la mia guida, virus, bactero, pestilenza o miasma che sia, ha già, nel tempo non solo frequentato queste terre, ma, come alcuni dicono, è stato proprio lui l’artefice che, in qualche modo, ha plasmato le architetture ed i paesaggi di queste parti.
Viene il sospetto che, all’origine della fondazione degli spazi, ci sia un atto di violenza divina: Apollo traccia i confini, le strade, gli isolati, incidendo con il coltello, separando e distribuendo tra i presenti gli organi della vittima sacrificale. Ma anche, si dice, un verme, un bactero, o un allora ancora ignoto, velenosissimo antiparassitario che aveva infettato una mela poco biologica, sia la vera causa della nostra fuga dal paradiso terrestre e, quindi, sia all’origine della prima architettura: la casa-capanna di Adamo. “Fattosi tetto con le mani”, così Filarete nel Trattato dell’architettura, (1451) disegna un Adamo ignudo sotto la pioggia, in fuga dall’Eden. Quelle mani diventeranno poi capanna, casa, grattacelo, città. Tutto questo e ciò che ne seguì, avvenne, dunque per un rettile e per un virus che, con l’odio, i razzismi, le guerre, è tuttora in circolazione. Da allora, come “naviganti tentati dalla nostalgia della terra”, condannati alla libertà, ma dalla libertà sospinti, costruiamo la nostra casa, non solo come tana che ci protegga , ma come segno di quella gioia nella vita e di quella bellezza che cerchiamo da sempre nella “natura”.
Per Ippocrate, e poi per tutto il Medioevo e il Rinascimento, i virus del colera, del vaiolo della “morte nera” sono chiamati vapori, miasmi e sono causa dell’ambiente malsano. Vitruvio (I dieci libri dell’architettura,1567, I, 3): “i fiati delle bestie palustri spargono nei corpi degli abitanti, unendosi ai corpi mischiati nella nebbia, faranno il luogo malsano”. Così anche Leon Battista Alberti inizia il De re aedificatoria ( 1485). Tutti i Trattatisti descrivono il corto circuiti tra miasmi, vapori, sporcizia, cioè tra i virus e l’architettura. L’invenzione dei vaccini ha, certamente, interrotto il rapporto tra architettura ed epidemia. Ma oggi, oggi, un virus cattivo, imprevisto ci fa ripensare ai “vapori”, all’inquinamento, all’insana densità e concentrazione dei luoghi in cui viviamo. E ancora una volta ci porta a riflessioni che, come nei Trattatisti di allora, non si sono certo, fermate alla prima pagina ecologica, ma hanno affrontato lo studio dell’armonia, della concinnitas, della sezione aurea, così anche noi dovremmo non fermarci ad una ecologia e sostenibilità limitata a numeri e algoritmi ma, procedendo oltre, cogliere le opportunità per disegnare nuovi e più saggi stili di vita. Ma, perché ciò avvenga, è urgente e irrinunciabile mettere in luce e aggiornare, contestualmente, competenza strutture, tecniche e organi di governo, oggi gravemente sclerotizzati. Saperi e culture virtuose, anche se apparentemente marginali e minoritarie, sono già presenti e attive sui nostri territori.
Dai vapori, allo studio dei materiali, alle colonne, alle strutture, ai giardini e ai boschi, così come avevano tentato anche gli illuministi di casa nostra, come Lodoli, Algarotti e Laugier, alla ricerca di nuovi valori etici e di quella bellezza e felicità che ci potrebbe essere nell’abitare la terra, bellezza che tutti inseguiamo, forse sfioriamo, ma mai riusciamo a raggiungere.
Mi viene il sospetto che gli urbanisti dell’ottocento e gli architetti modernisti del novecento, Gropius, Le Corbusier, Neutra, eccetera, abbiano fatto leva sulla sanità pubblica per imporre le proprie idee. Le grandi vetrate, il “distanziamento” tra edifici secondo i calcoli scientifici dell’incidenza dei raggi solari, il monotono e straniante ripetersi di stecche parallele e uniformi, i tetti piani, le strade uniformi, la semplificazione delle reti fognarie, il cemento armato a vista sono regole e stratagemmi che hanno certamente facilitato la progettazione e accelerato i programmi edilizi secondo le logiche del taylorismo e della rivoluzione industriale, ma, si può osservare, possono anche essere visti come dispositivi che si sono affermatati e accettati come programmi di igienizzazione e di difesa della tubercolosi. (S. J. Carr).
I nuovi modelli riflettono le caratteristiche architettoniche dei sanatori che si diffondono nei primi anni del novecento per curare i malati del morbo di Koch – ahimè inutilmente – isolandoli in alte montagne: grandi vetrate e balconi continui, facciate in intonaco bianco e liscio per dare un senso spartano e di pulizia agli edifici. Ecco la modernità. Ancora oggi i regolamenti edilizi prescrivono le dimensioni delle superfici vetrate ben sapendo che saranno poi oscurate dove il lavoro si svolge con i computer. Anche gli spazi interni, le cucine, i bagni e gli arredi sono, in quegli anni, semplificati secondo le regole dell’existenz minimum. Triste preludio ad una autarchica economia di guerra, premessa a tragici totalitarismi.
Da tempo le epidemie non si combattono più con l’architettura. I vaccini antivirali e gli antibiotici fronteggiano le epidemie emergenti, ma ancora è necessario studiare più a fondo i paesaggi delle grandi aree densamente urbanizzate e dei quartieri periferici più poveri e degradati; è lì dove, più facilmente, si diffondono i contagi e si formano le condizioni perché avvenga, attraverso zecche, zanzare, eccetera, il salto anomalo dei virus da animale a uomo.
In questi giorni , gli stessi i sanatori e colonie marine in abbandono, alle volte architetture bellissime, sono state, con urgenza, recuperate per ricoverare i malati del nuovissimo virus.
Lasciando l’asettico “distanziamento” montano del sanatorio svizzero dove trascorreva le giornate tra eros e sapienti conversazioni, il borghese, travagliato giovanotto Castorp, scende finalmente in pianura. È il Colpo di tuono. È la guerra. Lo vediamo nell’ultima pagina della Montagna Magica di Mann, uscire dal bosco con “giovanile entusiasmo”, innestare la baionetta tra gli scoppi delle granate e degli shrapnell e cadere, faccia in giù, nel fango.
Abbiamo, noi, giovani architetti, nel dopo guerra tentato di svincolarci dalle regole di un razionalismo sanatoriale e internazionale, imparato a scuola, ma ormai privo di forza e banalizzato. In un importante intervento di edilizia popolare, abbiamo articolato gli spazi esterni secondo corti che a loro volta circondano un grande giardino interno dove si attesta il percorso pedonale porticato. I tetti a falde seguono con continuità – come nelle cascine di pianura padana – il variare dell’altezza dei piani, due, tre quattro Le fronti in mattoni, i tetti in coppi piemontesi, gli alberi, i giardini e gli orti che circondano tutti gli edifici, costruiscono il paesaggio. Oggi dopo molti anni, è cresciuto il verde, rigoglioso e un po’ selvaggio, ed è diventato il protagonista della scena. Le fronti in mattoni pieni protette da abbondanti sporti dei tetti, si sono ben conservate. Molti abitanti, più volte, hanno testimoniato il piacere di vivere qui, in un luogo che, anche se distanziato dal centro, non è affatto banale. Come, invece, banali, ripetitivi, tristi, per poi cessare quasi ovunque, sono stati negli anni successivi, gli interventi di edilizia popolare, pensati solo in funzione dei metri cubi e della prefabbricazione pesante, su modelli standard, ripetuti indifferentemente in tutti i luoghi.
Certo, quelli di allora erano interventi periferici, monofunzionali, “distanziati” dal centro. Oggi, il virus ce lo ha duramente ricordato, ma da sempre, il rapporto tra aree centrali e periferiche tormenta sociologi, architetti e politici. Non è solo problema nominale, sociale economico o geografico. Non è facile affrontarlo. Eppure non è possibile, neppure giusto come sperava, anni fa, De Carlo, appiattire, rovesciare la piramide delle chances dei luoghi e delle funzioni simili, ma, come il “distanziamento” ci ha insegnato, occorrerebbe differenziare le opportunità, confermare nei luoghi storici centrali ciò che c’è, potenziare e diffondere quegli spazi, assenti nel centro, per correre giocare, pensare, camminare e tutti quei servizi necessarissimi che, per quanto oggi insufficienti, già in questi tempi difficili e virali, si sono dimostrati una risorsa. Virtuosi urbanisti, nel pianificare diligentemente lo zoning – gli spazi con le relative, specifiche funzioni – secondo superfici colorate di bellissimi colori, “bolle” indipendenti, ben accostate tra loro e circondati dalle strade e da confini . Oggi, come molti ormai ci suggeriscono (T. Ingolt, riprende gli scritti e gli splendidi disegni di Gottfried Semper), dovremmo accogliere l’invito a leggere luoghi, attività, e noi stessi, non tanto in termini di unità, superfici, bolle (Sloterdijch), ma come fili, fili diversi che si protendono, tra di loro si intrecciano, si aggrovigliano per formare nodi, corde, vortici, trame, e tessuti. Questi fili sono non solo lo spazio percorso, le strade, il tram, la metropolitana, il marciapiede, ma anche ciò che li circonda, e che circola dentro ai paesaggi. Questi fili siamo anche noi, sono il nostro corpo, il nostro sistema neuronale, il cervello, che, nell’evoluzione si sono sviluppati (Lingiardi, Damasio, Changeux, Zeki), sono il nostro sentire, l’aistesis, viviamo formando un unico paesaggio estetico ed etico, siamo parte di una unica atmosfera (G. Böheme). Con tutte le specificità che diversamente ci disegnano e con tutte le somiglianze che ci uniscono e che ci rendono, insieme e singolarmente, responsabili. Diceva H. Jonas: al di là della solidarietà c’è la responsabilità.
Forse oggi più che mai, perché costretti e distanziati nello spazio – la prossemica di P.Holl è un lontano ricordo – vorremmo aprire e percorrere con le gambe o solo con il pensiero, nuovi “sentieri” non troppo “interrotti”.
Fili, reti verdi, multicolori distese sulla città scendono dai balconi fioriti, attraversano il giardino sotto casa, si insinuano fra isolati. occupano spazi abbandonati, si fanno corda nei viali e tessuto nel parco, infine, faticosamente, superando barriere e confini, si espandono e si sfrangiano, tra ciò che è rimasto dei campi , prati, boschi, là dove la città si scompone e si ricompone.
E potremmo, anche se con fatica, giungere a quei grandi filamenti, che domani potrebbero divenire luoghi fecondi e bellissimi, ai fiumi e alle loro sponde . Potremmo osservare paesaggi agricoli, prati, campi, orti. Come già avviene in altri paesi, anche qui in Italia , questi tessuti dovrebbero essere protetti da semplici, fitte, alte siepi, alberi, barriere, per difendere la biodiversità e la produttività delle coltivazioni da veleni, idrocarburi, diserbanti, pesticidi e virus, ma che, soprattutto, offrirebbero l’occasione per ridisegnare paesaggi agrari nuovi, per ricomporre e confermare quelli antichi.
Filari di alberi bellissimi e rigogliosi sono i viali che a Milano disegnano paesaggi e percorsi urbani. Nel nostro sconfitto progetto, per la Regione Lombardia – non certo un grattacelo – grandi alberi, in continuità con il sistema dei viali, circondano e si arrampicano dolcemente accompagnando il pubblico alla sommità dell’edificio, quota Madonnina. Giunti lassù, ancora filari alberati, si annodano, formano un tessuto, grande piazza aperta al sole, tolda di nave, dove, visitatori e paesaggio si intrecciano in un unico, intricato, nodo.
Nel tentativo di sfuggire alla mia guida e virulento inseguitore, cerco un balcone nel quale appollaiarmi e riposare. Non mi sarà facile trovarne uno che mi piaccia . Molti alloggi nelle città non ne hanno nessuno o, se li hanno, sono piccolissimi. Vorrei trovarne un balcone nel quale vivere, riparato dal virus, alcune ore, pranzare con gli amici, luogo che possa diventare anche il piccolo giardino nel quale far crescere fiori e rampicanti, dove sonnecchiare, leggere, cioè vivere ore tranquille, otium.
Se fossi stato un Trattatista o se potessi fare, oggi, solo piccole correzioni ai regolamenti edilizi – con i grandi emendamenti non finiremmo mai – indirizzerei l’attenzione di progettisti e costruttori verso i porticati, verso i balconi e le terrazze, i giardini, gli orti, cioè verso quelle propaggini, che sono estensioni degli edifici nel paesaggio, intrecci con ciò che sta attorno, philia. Questi spazi sovente penalizzati dalle disposizioni urbanistiche – fanno superficie coperta, non si possono normare negli standard, ecc. – ma che, io credo, come anche il virus ci ha brutalmente ricordato, sono spazi necessarissimi, perché un dimorare non sia soltanto momento della marxiana “riproduzione della forza lavoro”, ma, anche se limitato, sia tempo in cui corpo e spazio possano ritrovarsi amici.
Al costruttore avevo detto: facciamo balconi grandissimi che siano i veri protagonisti dell’intervento. Fronti poco costose, solleviamo gli isolati su una ripa verde alta sopra le vie, affacciamo i balconi, non sulla strada trafficata, ma all’interno, in continuità con la grande corte-giardino, gioco bambini, porticati… Tempo fa ho incontrato un giovane lì residente: “la ringrazio, architetto, per i balconi. Alla sera tutti noi, nei balconi accendiamo lumini, pranziamo, ci scambiano bottiglie, cantiamo”. Vorrei ancora incontrarlo oggi, in tempo di clausura; desidererebbe probabilmente, un un alloggio più spazioso, con dentro “cose” più sue, intelligenti, con le quali poter chiacchierare e giocare. I tempi del virus hanno fatto ricordare a molti il piacere di far cucina, di pranzare non solo in famiglia, ma con tanti amici e quindi di avere una cucina che non sia “angolo cottura”, “cucinino in nicchia”, taylorismo in casa. Desideri di spazi per per vivere insieme, ma anche spazi per stare con se stessi: in interiore homini. Ho un amico architetto che ha rispolverato pennelli e acquarelli e, nel giardinetto davanti a casa, studia l’albero, il fiore, la panchina, il prato. Così si potrebbe, “nel chiuso di un’una stanza con il cervello in vacanza” (S. Penna) scrivere con De Maistre, un voyage autour de ma chambre.
Tra parentesi a proposito del “verde”: mi commuovono poco i “boschi verticali”, artifici, scenografie costose che snaturano la natura. Qui, a Torino, ci sono, nelle corti, bellissime e frugali glicini e vite vergini che non domandano altro che arrampicarsi tra facciate e balconi, sù, sù, fino agli ultimi piani.
Anni sessanta. Allo staff degli Olivetti, che ci avevano chiesto un progetto – pensavano ad un grattacielino dal quale i nuovi stagisti, fin dal mattino, potessero ammirare gli uffici e le fabbriche che li attendevano. Abbiamo presentato agli olivettiani sgomenti, un grattacelo sì, ma disteso secondo un ampissimo semicerchio. Il bel prato esistente si solleva leggermente per accogliere sotto di sé alloggi, autorimesse, strade, servizi. La vetrata continua sutura la faglia e dà luce agli alloggi che, come palchi di un teatro, si affacciano su una scena dove gli attori sono il grande prato, gli alberi e la collina che il cerchio affettuosamente, abbraccia. Avevo, allora disegnato un omino un po’ pallido, seduto sul tappeto, dietro al vetro, che contempla pensoso il mutare delle stagioni, i colori del tempo. Il virus, sogghignando, mi avverte ora che, vietando l’accesso alla cavea-giardino, siamo stati, in materia di clausura, molto più crudeli di lui. Ha ragione, ma se il pubblico vuole assistere alle performances di una natura wilderness, non dovrebbe disturbarla. Così anche Rousseau nelle sue Rêveries, guarda da lontano l’Isola dei Pioppi, là dove verrà sepolto.
Passato il virus, mi informerò delle condizioni di quel prato e di quel bosco. La natura è delicata, vulnerabile, occorre alle volte lasciarla fare. Dafne, l’albero dell’alloro, è figlia di un dio fluviale. Rifiuta l’amore di Apollo che disperatamente la insegue, ma, appena la tocca, la Naiade si trasforma nel suo albero sacro: “le mani si fecero rami e foglie, i piedi misero radici” (Orazio)
Svolazzando come un pipistrello – dal quale, dicono, trae origine – il virus attraversa la vuota navata della cattedrale. Mi fa osservare che Antonio, Giovanni e i Padri della Chiesa traevano grande giovamento ed autorevolezza per aver vissuto il silenzio del deserto, che il lockdown è l’ascetica clausura secolarizzata e che il Messia distribuiva pani e pesci in riva al mare o su di un prato. Chissà se a molti di noi non abbia fatto bene un po’ di distacco dalle vorticose cose del mondo. Ancora il maligno mi fa osservare che, allora, televisione, social, cellulari, eccetera non turbavano gli eremiti. Il virus vuole avere sempre ragione, le sa tutte.
Dobbiamo, però, guardare, non con gli occhi del virus, ma con i nostri occhi, con quelli di coloro per i quali si edifica, con gli occhi dei nostri paesaggi travagliati, dobbiamo studiare e progettare con i nostri incerti saperi, ma con “coscienza dei luoghi”, quei mutamenti che da tempo e non solo da oggi, abbiamo sperato.
Un po’ meno folla nei grandi musei davanti ad opere preziose, e, nei territori, un po’ più di vita attenta a ciò che lì possiamo ammirare: eventi, performances, land art,camouflages, interventi di mitigazione, recupero di palazzi per esposizioni e incontri, presentazione di opere e valori ora nascosti, che devono essere riscoperti e affidati ai territori. E ancora sul virus e salute: strategie per il decentramento territoriale dell’assistenza ospedaliera. Diffusione sul territorio dei luoghi del lavoro, imprese, artigianato e, contestualmente, anche territorializzazione della ricerca, non tanto di quella d’eccellenza che esige concentrazioni, ma di quella necessaria a supportare e innovare specifiche attività industriali e agricole; già molti Politecnici stanno finalizzando, con questi obbiettivi, specifici corsi di laurea. Educazione e ricerca: rivedere ed aggiornare ciò che c’è, progettare sapientemente ciò che manca: qui al mio paese, abbiamo costruito la scuola media e elementare con una spesa decisamente inferiore allo standard, in tempi brevissimi anche perché ad un solo piano e struttura prefabbricata, muri e porticati in pietra locale, tetto verde. Si distende in un grande prato sul quale si aprono direttamente le aule. È tutta circondata dal bosco dove i bambini possono riconoscere e farsi amici gli alberi che crescono quassù, su queste montagne.
Alla fine di questo faticoso viaggio tra architetture, virus e paesaggi, siete autorizzati a chiedere al vecchio architetto, al professore – qualcuno ancora ci chiama Maestri – di esporsi, dire quale architettura, quali paesaggi, quale mondo ci attende. Purtroppo, in tanti anni non sono mai riuscito a professare una teoria, pormi come esempio, vaticinare un futuro. E tanto meno una utopia. Questa mancanza un po’ mi spiace. Ho sempre preferito rimettermi in gioco davanti alla avventura di un nuovo progetto. A scuola mi sistemavo al tavolo degli studenti affrontando temi complessi, concreti, cercando faticosamente con loro, nuove vie. Così fanno ancora molti, bravi docenti. Mi sono presto allontanato dai miei Maestri, senza complessi edipici, ma con quella pietas che a loro si addiceva. Questo solo posso dire: il progetto di architettura è, dovrebbe essere, lo sporgersi oltre il già detto e il già fatto, apertura ai paesaggi della vita. Certo, oggi il mercato, le concentrazione dei poteri in pochi centri multinazionali, la conseguente burocratizzazione delle procedure, sembrano aver precluso, anche al progetto, la libertà. Oscurata la parola dall’immagine, il mondo appare come un unico, grottesco spettacolo. Anche il mondo sembra, oggi, aver perduto se stesso. Ma io credo che, malgrado tutto, occorre ancora oggi, avere il coraggio delle immagini e della parola. (D. Hubermann). Immagini nuove, autentiche e sagge, anche se minoritarie, possono, nella mondializzazione, diffondersi così come anticorpi in un sistema ammalato. Nel corso della lotta partigiana, i comandanti a fronte di un nemico che sembrava invincibile, hanno abbandonato le strategie di conquista per praticare la guerriglia: azioni locali, coraggiose, ma accuratamente progettate efficaci. Alla fine abbiamo vinto contro strapoteri che stavano per cancellare il mondo. L’Illuminismo delle Costituzioni e dei saperi umanistici, malgrado Rivoluzioni e Restaurazioni, ci possono guidare. E, spero, libertà, fraternità, uguaglianza ancora lottano per estirpare i tanti, differenti, terribili virus dell’odio, del razzismo, dell’oblio che oggi circolano tra noi. Certo, avremo, avrete sempre davanti a voi quei temi e quei problemi, quei conflitti che i Lumi e le passate certezze hanno lasciato irrisolti. Coraggio!
Articolo pubblicato su Scienze del territorio Rivista di studi territorialisti | Numero speciale: “Dal confinamento pandemico nuove forme dell’abitare” | A cura di Anna Marson e Antonella Tarpino