Considerazioni inquiete, a margine del concorso per Palazzo dei Diamanti

  • Posto che il tema dei concorsi di architettura, in quanto competizione intellettuale, costituisce una questione tanto fragile quanto nodale in una strategia complessiva diretta a migliorare la qualità dell’Architettura;
  • Posto che le polemiche sul concorso per il Palazzo dei Diamanti di Ferrara hanno scatenato un dibattito agguerrito – sia pur circoscritto agli addetti ai lavori – che ha rimesso in moto il confronto tra posizioni diverse ed evidentemente non ancora del tutto elaborate all’interno di indirizzi politici consolidati, da parte dell’opinione pubblica, delle istituzioni e degli attori interessati;
  • Posto che il principale protagonista di questo dibattito (Sgarbi) si contraddistingue per un proprio consapevole e intenzionale “modus operandi”, basato sulla aggressività polemica e sulla potenza mediatica, più che sulla sostanza dei contenuti (che peraltro non sono banali);
  • Posto che la polemica si colloca temporalmente in un punto della procedura concorsuale quando essa è ormai quasi conclusa, laddove premesse, contenuti e obiettivi erano da tempo espliciti e accessibili e avrebbero ampiamente permesso di introdurre punti di vista, sensibilità, ruoli, interessi diversi da quelli che risultano, almeno attraverso la documentazione reperibile in rete, essere stati messi in campo;
  • Posto anche che, nello spirito del tempo e nella sensibilità dell’opinione pubblica, si debba riconoscere che la immediatezza del principio di conservazione gode di molto maggior consenso di quanto ne goda una sofisticata idea del divenire, capace di contenere la complessità e la eterogeneità delle istanze.

Mi sarei aspettato che la controversia, per quanto accesa e esasperata, affrontasse il tema del “come e in quali casi intervenire sul costruito storico” piuttosto che arroccarsi su una schematica e consolatoria dicotomia: da una parte la pregiudiziale “tutela assoluta del patrimonio di pregio”, la dimensione contemplativa della sua statica integrità, senza alternative e mediazioni possibili; dall’altra l’affermazione che tutto il territorio edificato, comprese le espressioni più dense di contenuti storico-culturali (e il Palazzo dei Diamanti in particolare) non sono che il prodotto di ineluttabili ed evidenti stratificazioni, contaminazioni, re-interpretazioni, che ne esprimono la vitalità e il continuo adattarsi al divenire, nel cui alveo il progetto vincitore si colloca.

Nella stessa percezione dei “capolavori assoluti” (già il ricorso disinvolto al termine “assoluto” suscita qualche perplessità) il contesto  si modifica nel tempo, come effetto ineludibile del mutare dei valori e dei codici percettivi; la stessa “società dell’immagine” e il “turismo di massa” tende a trasformare quelle architetture in icone metastoriche, piuttosto che in testimonianze di un sistema culturale sedimentato nel tempo. Se ne produce che, paradossalmente, la contemplazione stessa dei “monumenti antichi” con lo sguardo del presente, ne deforma il carattere di “permanenza” e i contenuti di “immutabilità”, o non vale piuttosto la riflessione di Pierluigi Nicolin (Lotus International n.46) secondo cui l’Architettura del passato ha trasformato e arricchito la propria dimensione storica nel divenire insediamento?

Confesso di essermi ancora una volta illuso che l’evoluzione del dibattito intorno al tema della “integrità”, in un Paese in cui la presenza della Storia è così fisicamente diffusa e fittamente intrecciata con la sua contemporaneità, avesse ormai definitivamente consegnato ad un ruolo di retroguardia la contrapposizione secca tra conservazione e progetto; ma che l’intero scenario culturale, sociale, civile in cui una parte consistente della mia generazione si è formata si stia disgregando, è un fatto a cui ci si deve in qualche modo adeguare, ma questo è un’altro discorso…….

Resta tuttavia – da parte mia – una sensazione di disagio e il bisogno di condividere una riflessione: che gli interventi “a difesa” del progetto Labics (e associati) non si siano allontanati molto da un’argomentazione “politically correct”, reticente a rompere gli schemi, a misurarsi a tutto campo con la ampiezza, la delicatezza e la complessità dei temi coinvolti.

Temo che questa occasione rischi di andare, almeno in parte, sprecata nel momento in cui si accetti – per ragioni di opportunità e per evitare di rigirare il coltello nella piaga – di esaurire il tema al solo aspetto procedurale, senza entrare più di tanto nella discussione sull’enunciato progettuale stesso. E pertanto, se mi si concede per una volta di uscire dall’understatement che mi contraddistingue, mi permetto di osservare che:

  • ogni procedura decisionale, a partire dai più elevati statuti istituzionali, nella nostra cultura giuridica così come nel divenire quotidiano, sono concepiti per offrire una ragionevole via di uscita nei confronti di ogni forma di “inderogabilità” dell’assoluto, del deciso, del compiuto una volta per tutte.
  • Anche i concorsi (non mi riferisco a questo ne a nessun altro concorso in particolare) continuano a presentare, non tutti ma con significative ricorrenze, alcuni elementi di criticità: bandi come alibi mediatico per permettere alle Amministrazioni di sfuggire al compito istituzionale di esprimere un indirizzo, in risposta al quale il concorso deve offrire un ventaglio di prefigurazioni dei molti tra gli esiti possibili; prefigurazioni che acquisiscono tanto più valore quanto meno ristretta ed elitaria è la platea dei soggetti chiamati ad esprimersi e meno specialistico è il linguaggio; bandi i cui contenuti di programmazione e documentazione sono spesso generici e/o approssimativi; giurie a volte influenzate da fattori estranei alle scelte di merito. Il concorso di architettura può costituire un dispositivo virtuoso nella misura in cui, alla competizione intellettuale si affianchi un percorso di partecipazione democratica.
  • Analogamente, non si può non rilevare che la partecipazione ai concorsi, i requisiti richiesti e il livello di approfondimento, anche in ragione del modello concorsuale adottato, tendono a costituire un impegno sempre maggiore di tempo e di risorse ed una compressione anomala della componente economica dell’offerta; tutti elementi che producono l’effetto inverso di quanto in origine si intendeva ottenere, ossia ampliare la legittimazione sociale del ruolo, permettere ad una platea ampia di progettisti di esprimere le proprie potenzialità ed ottenere opportunità di lavoro, piuttosto che restringere il campo a quei pochi soggetti, sufficientemente affermati e solidi da poter adeguare la propria organizzazione alla “macchina concorsuale”.

Per concludere, mettendo – forse sgarbatamente, e me ne scuso in anticipo – i piedi nel piatto del tema all’ordine del giorno, i difensori del concorso paiono arroccati nella legittimazione del progetto sulla base della sua conformità ad una schematica e consolidata dottrina dell’intervento sul costruito: il distacco dall’edificio originario, l’ampliamento contenuto entro parti marginali del complesso, la reversibilità, la riconoscibilità linguistica delle porzioni di nuovo rispetto all’esistente, la riduzione dell’impatto attraverso una architettura minimalista esile e il più possibile anonima (salvo il richiamo esplicito ad un nitore miesiano che – a mio modestissimo parere – appare stridente con il carattere frammentario del retro del Palazzo.)

Insomma, il progetto pare quasi volersi giustificare affermando il proprio occultamento; o non si tratta piuttosto di qualcosa che manca? Qualcosa che ha permesso in mille altri casi (penso al tormentato ampliamento del Municipio di Göteborg di Asplund, al museo di Stoccarda di Stirling, all’intervento di Chipperfield nell’isola dei musei di Berlino, all’“Artemisium” di Vincenzo Latina a Siracusa…….) di affermare la legittima possibilità di intervenire sul Passato – nel ventaglio dei dispositivi linguistici possibili, che rispettino l’esistente senza negare l’irruzione sia pur discreta del nuovo – dimostrando la presenza di un filamento di senso capace di andare oltre l’immagine superficiale del manufatto, affermando la continuità nella discontinuità, la sensibilità di tradurre senza tradire, per metterne a nudo le radici e decifrare una sorta di matrice genetica di quella architettura del Passato, per farne affiorare il senso, rintracciato nelle trame degli schemi regolatori, dei ritmi, delle proporzioni, della sequenza degli spazi e in chissà quali altri dispositivi, una sintassi che consenta di proseguire lungo quello stesso discorso, con un linguaggio contemporaneo.

Il rapporto fra un intervento di architettura nuova e l’architettura già esistente é un fenomeno che cambia in funzione dei valori culturali attribuiti sia al significato dell’architettura storica che alle intenzioni del nuovo intervento. Perciò è sommamente ingannevole pensare che si possa definire una dottrina permanente o ancora meno una definizione scientifica dell’intervento architettonico. Al contrario, soltanto comprendendo quali sono state in ciascun caso le concezioni a partire dalle quali si è agito è possibile discernere le diverse caratteristiche che nel corso del tempo ha assunto questo rapporto. Il progetto di una nuova architettura non solo si avvicina fisicamente a quella già esistente ed entra in rapporto con essa visivamente e spazialmente, ma stabilisce una vera e propria interpretazione del materiale storico con cui si misura, di modo che questo materiale è oggetto di una vera lettura che accompagna esplicitamente o implicitamente il nuovo intervento nel suo significato globale. (Ignasi de Solà Morales, Dal contrasto all’analogia, Lotus International n.46).