Premio alla Carriera IN/Arch Piemonte 2020 | 19.10.2020

Prima di tutto ringrazio IN/Arch Piemonte per aver ripristinato, insieme a IN/Arch  nazionale, questa tradizione dei premi di architettura e, soprattutto, per l’impegno che rivolge, in modo molto attento, alla cultura della nostra Città.

Ringrazio anche la Commissione, per quanto ha scritto nel breve testo che avete visto proiettato quando hanno indicato il premio che mi è stato assegnato, perché è uno scritto molto intelligente; non mi presenta come un architetto nel senso di un tecnico dell’architettura, ma come un signore che si è occupato di tante cose, di tante questioni di carattere culturale e che ha fatto anche l’architetto.

Ecco, l’architettura, come forse anche l’arte, non può essere, non deve costituire una disciplina separata. Si tratta di discipline che sono calate dentro a situazioni di vita, all’abitare della gente, perciò la cultura di un architetto deve espandersi al di là del fatto di esercitare in modo specifico il mestiere dell’architetto.

Naturalmente, ringrazio poi moltissimo il professor Isola, che mi ha onorato con una sua bellissima presentazione, che ha voluto dedicare il suo tempo a occuparsi di me, del mio pensiero, delle mie opere.

Per quanti siano interessati, proverò anch’io a mettere per iscritto il mio discorsetto.

Ecco, qui si è parlato della “carriera”. Ho pensato: cos’è una carriera?

Dicevo prima, parlando del testo che mi presenta, una carriera è essere in una situazione: essere calato dentro il mondo, dentro le sue situazioni e seguire le varie vicende della vita, tra cui anche quelle dell’architettura.

Ritornando alla carriera, posso ricordare – tra gli altri – due momenti importanti.

Il primo, che ha molto influenzato la mia vita, si riferisce a quando ero giovane. Intanto, io sono figlio di un ingegnere costruttore. Pertanto si sono intrecciate due esperienze, quella dell’ingegnere e quella dell’architetto…io da ragazzino ho potuto seguire i cantieri di mio padre. I primi lavori che ho fatto, me li ha fatti fare mio padre, li ha seguiti con me e mi ha insegnato tante cose.

Da giovane poi, ho fatto parte di quel gruppo di architetti che negli anni ‘50 diedero vita ad un movimento chiamato poi Neoliberty. Il Neoliberty a Torino ha avuto molto successo ed i suoi principali esponenti furono gli architetti Gabetti e Isola, l’architetto Raineri, gli architetti Iaretti e Luzi. Io ero un po’ più giovane tra i membri del gruppo, ma ho avuto modo di partecipare molto alla loro attività, anche perché ero assistente di Mollino all’università, ma lavoravo con Gabetti; poi ho lavorato molto con Isola, perciò devo dire che ho avuto con loro un intenso rapporto sui temi dell’architettura, ma anche della didattica e della ricerca. Sono state per me delle esperienze molto importanti.

Ad un certo punto, nella mia vita è avvenuto un cambiamento. Il movimento del “Sessantotto” mi ha profondamente coinvolto. Oggi, c’è chi parla bene del Sessantotto e chi ne parla male. Per mia esperienza personale, lo considero una stagione molto positiva, perché per me il Sessantotto… insomma il movimento di quegli anni lì… è stato molto importante, perché mi ha portato a riconsiderare il rapporto tra quello di cui mi occupavo abitualmente, la cultura architettonica, e la situazione sociale.

In quegli anni, quando mi occupavo del Neoliberty, ho viaggiato molto: in Austria, in America… dappertutto a vedere opere di architettura. Mi sembrava che questo mondo dell’architettura costituisse una realtà che poteva racchiudere in se un suo valore indipendente dal mondo intorno.

Il Sessantotto mi ha fatto capire che si trattava di trovare dei rapporti più stretti tra il modo di fare cultura e architettura e quelli che erano gli sviluppi sociali, i problemi sociali, le trasformazioni sociali. È questo è stata per me una lezione molto importante che, in qualche modo, ha cambiato anche la mia vita.

Vi racconto una cosa forse divertente. In quegli anni, alcuni miei parenti mi hanno chiamato a progettare un “Piper”, quello che forse oggi si chiamerebbe una discoteca, ma che allora rappresentava un luogo di riferimento, oltre che per la musica, per tutte le espressioni che in quel momento rappresentavano le posizioni più  avanzate dell’avanguardia artistica e intellettuale.

Potrebbe sembrare che stia parlando di una questione frivola: il Piper. No, sto invece parlando di una questione seria, perché per me si è trattato di una esperienza che ha profondamente inciso sulla mia formazione di progettista. Nel senso che ho dovuto confrontarmi con un tema di progetto che non era caratterizzato da una sua funzione immediata e stabile: non è che si progettasse il Piper come una situazione ferma, fissa. L’idea di Piper era connaturata ad uno spazio che avrebbe potuto assolvere a molte funzioni. Avrebbe potuto essere usato come sala da ballo, come teatro, come spazio espositivo, ecc. Ecco, ho capito che allora un tema importante in architettura era la disponibilità alla trasformazione. Non vedere l’architettura come un fatto stabile, finito, ma come un processo. Fare l’architetto, elaborare un progetto, assumeva la forma di offerta di un dono, di suggerire una situazione che di lì in poi deve poter svolgere la propria vita nel mondo, essere interpretata, partecipare – con altri progetti e altre azioni – alla trasformazione sociale.

È stato stranamente proprio il Piper ad indicarmi questa direzione; direzione che poi ho seguito, nel senso che per me la progettazione è diventata proprio quel modo di entrare nel merito di una situazione, di esaminarla molto bene in tutti i suoi aspetti e poi cercare fare una specie di racconto di quanto ho scoperto in quella situazione. Quello che ho percepito nella situazione, che ho conosciuto e interpretato nella situazione, diventa il nutrimento del progetto.

Questa lettura della situazione diventa progetto. Il progetto non è più l’“opera”, nel senso di una realtà chiusa, finita, da contemplare, ma il progetto è una delle soluzioni possibili. Il progettista sa di dover affrontare una indagine e che ad un certo momento questa indagine deve condurre a un progetto. Se potesse protrarre all’infinito la sua indagine il progetto si evolverebbe in mille modi possibili. Emerge allora questa relativa casualità del progetto. E il progetto mi interessa quando esprime questa casualità. Mi sembrano questi i progetti più interessanti perché, invece di chiudere, aprono.

Chi si occupa di Arte la chiama “opera aperta”… Ma l’opera deve sempre essere aperta, deve costituire un invito a pensare, a riflettere, a cambiare, a esprimersi a partire da una determinata situazione.

Questo è stato l’indirizzo che ha caratterizzato, da allora, la mia successiva ricerca e credo che costituisca ancora oggi l’interesse principale.

Volevo chiudere parlando del “percorso” del progetto.

Pensavo – da vecchio signore chiamato a ricevere un premio per la carriera – che era forse mio dovere formulare, non dico un consiglio, ma un’idea, un proponimento. Con un sunto del mio pensiero.

Io amo, mi occupo, mi interessa la filosofia. Non come fatto culturale, ma proprio come indicazione di pensiero, di una concezione a partire dalla quale pensare, in particolare all’attualità.

L’architettura è un problema filosofico, è un problema di pensiero. E tra i filosofi che mi hanno più interessato c’è Paul Ricoeur, che nei suoi libri parla molto del tema della narratività come possibile senso da dare alla progettazione.

Quando mi fu affidata la cura della XIX Triennale di Milano, con i miei collaboratori volevamo appunto organizzare un incontro sul tema del progetto e ci proponevamo di invitare proprio Paul Ricoeur, che allora abitava a Parigi. Alla nostra richiesta diede purtroppo risposta negativa: non poteva, alla sua età, affrontare il viaggio a Milano, ma il tema gli interessava molto e ci avrebbe volentieri mandato un suo pensiero sul tema. E infatti ci ha mandato un bellissimo documento, che io ritengo ancora oggi un punto fondamentale di riferimento. Che cosa dice in questo documento? Propone un’approccio all’architettura in tre fasi. Tre fasi di figurazione. Lui le chiama: prefigurazione, configurazione, rifigurazione.

Il progetto deve essere collocato in una situazione, in un luogo.

Prima fase: occorre percepire questo luogo, conoscere questo luogo, indagare questa situazione. Poi, su questo progetto, che ha un contenuto, che è destinato ad una funzione definita –  una scuola, una casa, un teatro… – si deve sviluppare una approfondita ricerca. Tutta questa grande analisi preliminare di prefigurazione, secondo Ricoeur è già una operazione progettuale. In quest’analisi io scelgo certe cose rispetto a certe altre. Incomincio a selezionare i materiali del progetto.

Ma questa ricerca ad un certo punto si ferma. Si ferma perché bisogna consegnare il progetto, perché ti pagano la parcella per un certo tempo di lavoro, entro una certa scadenza e poi basta. Allora devi affrontare il progetto vero e proprio, la configurazione. Il progetto, dunque, è caratterizzato da una sorta di casualità. È casuale nel senso che se si fosse continuato a portare avanti la ricerca, probabilmente il progetto avrebbe prodotto soluzioni diverse. In quel momento lì, è possibile formulare quel tipo di soluzione, una provvisoria verità. Ecco, non mi sto riferendo al progetto con la P maiuscola; sto invece riferendomi al progetto come ad una verità provvisoria, uno tra i molti progetti possibili; questa mi sembra essere una constatazione interessante.

I progetti che si presentano così, nella storia dell’architettura attuale, sono i miei preferiti e i Maestri che si immedesimano in questo atteggiamento nei confronti del progetto sono, secondo me, i più interessanti.

Per Ricoeur, c’è poi una terza fase, che si chiama rifigurazione. Questa è data dalla consapevolezza che il mio progetto si rivestirà di altri significati con le future interpretazioni. Il progetto non è fermo. È offerto alle interpretazioni e assumerà su di se un’infinità di altre configurazioni e di altri significati. E anche questi, in qualche modo, fanno parte del progetto. Nel senso che, quando io affronto il progetto devo tenere conto che questo mio progetto sarà a sua volta interpretato e diventerà un’occasione di dialogo nella società. Questo è il suo compito e il suo destino.

Ecco, mi sembra che queste tre fasi – prefigurazione, configurazione e rifigurazione – potrebbero essere una via. Io potrei consigliare ai giovani architetti di assumerli come punto di riferimento.

Grazie ancora. 

Photo Piper Torino progetto di Pietro Derossi