Si può affermare che nella comunicazione mainstream, da diverso tempo, l’architettura ha perso gran parte della sua funzione sociale di costruzione di senso del vivere collettivo, di rappresentazione di nuovi modi di vita riferiti ai temi che la società ci pone. 

Architetture presentate sempre più come oggetti design da contemplare, affollano le riviste specialistiche, grandi interventi di trasformazione, per lo più dedicati all’upper class, compaiono sui mezzi di comunicazione di massa con modalità di esposizione tipici della comunicazione pubblicitaria, molto spesso senza un minimo accenno alla storia del luogo, alla rete di relazioni che ne costituisce il senso.

Lungo sarebbe elencare la rassegna di articoli comparsi sui giornali nazionali relativi ai grandi progetti di sviluppo in cui prevale il carattere di promozione pubblicitaria. La ragione di questa modalità di esposizione dei grandi temi di trasformazione non è soltanto dettata dalla piaggeria dei giornali, ma anche da una nuova dimensione dei progetti urbani, che sono sempre più product  oriented, hanno un target di vendita definito che impone un metodo di comunicazione.

Linguaggio che, come le seduttive visualizzazioni digitali, adotta largamente i mezzi del maquillage, del camouflage, del paesaggismo, del mascheramento, dove i temi della eco-sostenibilità, della promessa verdolatrica, diventano meccanismi propri della comunicazione pubblicitaria. All’interno di questo largo e diffuso paradigma di riferimento, il progetto non intende assumersi in modo primario il compito di dispiegare (o raccontare) il carattere di un interpretazione, riferita ad un contesto fisico, storico o sociale, ma tende a chiudersi nella proposizione di azioni interne al processo di generazione della forma, è sopratutto orientato all’affermazione di un’identità di carattere stilistico, identità per lo più  afferente a valori esterni al contesto di riferimento e definiti a priori. In altre parole, il problema della lettura o interpretazione che contraddistingue l’identità del luogo passa in secondo piano, non è preminente. 

Ciò che conta è sopratutto la qualità iconica dell’immagine, la sua forza allusiva, la sua capacità di richiamare uno stile riconoscibile. Anche per questo agli architetti è sempre più richiesta l’esibizione di uno stile, la produzione di un brand, più che la soluzione ad un tema urbano articolato e complesso. Nel tempo questa situazione sembra aver prodotto una sovra-produzione di oggetti/immagini spostabili e collocati in contesti intercambiabili, una sorta di indigestione di luoghi e architetture facilmente  appiattite su modelli linguistici globali, in cui il rischio di perdere il senso di quello che si fa’ in favore di ciò  che si rappresenta, è sempre più  elevato. Una trasformazione del modo di produrre e comunicare le opere di architettura che ha però anche delle significative conseguenze  sul concetto di bellezza che ad esse viene associato.

La parola Bet-El-Za in lingua sanscrita, ha il significato di “luogo dove dio brilla”, e ha un’ incredibile assonanza con la parola bellezza, anche se in realtà, secondo gli studiosi, non ha nulla a che fare con l’etimologia della parola in lingua italiana. L’etimologia dell’aggettivo italiano “bello”, contrariamente a quanto generalmente si pensi, non deriva nemmeno dall’aggettivo pulcher o formosus, così come il sostantivo bellezza non discende dal corrispondente sostantivo latino (pulchritudo), secondo gli studiosi deriverebbe invece da una forma arcaica di latino corrispondente all’aggettivo “bellus”. Parola che nel significato comune non faceva riferimento solo a quella che oggi è definita la bellezza ma anche alla bontà, alla virtù, all’armonia interiore, all’utilità. Analogamente nell’antica Grecia la parola kaloghathos contiene al tempo stesso la radice bello (kalos) e buono (aghatos). L’espressione kalokagathia (bellezza) in greco antico indica effettivamente un ideale di perfezione al contempo fisica e morale. Così era anche per  Platone, per il quale la bellezza e la bontà erano inscindibili, esse si danno solo se se legate l’una all’altra. In generale si può sostenere che nella grande metafisica greca si esaltava la relazione tra essere, vita e bellezza, tanto che il filosofo neoplatonico Plotino poteva affermare che il bello non è altro che “la fioritura dell’essere”, la sua perfezione. 

Nell’antico testamento ciò che è bello è invece indicato con la parola ebraica “tov“ che ha il significato di decoroso, piacevole, splendido, ma anche di buono e utile, anche in questo caso con una distinzione poco definita  fra la dimensione etica e quella estetica.

In generale, pur non essendoci una vera e propria teoria estetica (si tratta per lo più di aneddoti, racconti, esperienze) nei testi sacri dell’antico e del nuovo testamento, la parola bellezza è sempre legata alla dimensione etica e spirituale. Ciò che è bello è quasi sempre anche buono. 

A cosa si riferisce oggi l’aggettivo “bello” riferito ad un progetto di architettura? Nell’epoca dell’autorialità esasperata delle grandi firme contemporanee, che tende, volente o nolente, a separare la produzione edilizia dalla grande opera di architettura, si può sostenere che l’aggettivo bello sia oggi riferito, in particolar modo, alla capacità del progetto di stupire piacevolmente lo spettatore, di sedurre con le sue forme innovative e luminescenti?  Ciò che possiamo registrare è che, con la sovraesposizione di immagini, si fa largo un’idea di bellezza che prescinde dall’utilità dell’opera, dalla sua capacità di interpretare in modo adeguato dei bisogni sociali, economici, funzionali, simbolici o collettivi. All’interno di questa supremazia dell’immagine sembra farsi strada anche una concezione Kantiana (romantica) dell’artista straordinario, del genio solitario, che in virtù di un suo particolare (e inconoscibile) rapporto con la natura e l’universo, produce una “rivelazione”.

Lo diceva, seguendo i canoni del romanticismo, anche Oscar Wilde :“la bellezza è una forma del Genio. È più alta del Genio perché non necessità spiegazioni […]”. Va da sé che all’interno di questo paradigma interpretativo l’opera di architettura non vada più spiegata, ma solo recepita, fruita come oggetto che, per le sue inconoscibili proprietà artistiche, produce piacere. Un modalità di fruizione dell’architettura come oggetto/immagine  che sembra produrre come effetto una separazione sempre maggiore tra pensiero e progetto, separazione che ci dice anche molto dell’attuale aporia del discorso architettonico, della difficoltà oggettiva di raccontare i progetti come processi logico-creativi. Processi (e non oggetti) che seguono un percorso accidentato, agiscono all’interno di un sistema materiale, culturale, simbolico, storico e sociale, che ne costituisce la cifra, la sua identità, e con essa la sua differenza. 

Separazione fra pensiero (o intelligenza) e bellezza che risulta ancora più incomprensibile se, pensando alla storia dell’arte moderna, si rammenta la svolta fondamentale operata dalla ruota di bicicletta di Marcel Duchamp, con l’avvento dell’arte concettuale, dove addirittura è l’interpretazione dell’oggetto artistico, o meglio l’operazione intellettuale che ne giustifica la rappresentazione, che prende il sopravvento sulla forma.

Andy Warhol amava dire scherzosamente che le donne molto belle sono quasi sempre anche molto intelligenti. Diceva questo per contestare il cliché della donna bella e stupida, ma lo diceva in realtà anche a sostegno dell’idea che la bellezza senza l’intelligenza non si dà, nemmeno in natura. Del resto come si potrebbe immaginare altrimenti la rappresentazione in serie di una scatola di salsa di pomodori consacrata come massima (e bellissima) espressione dell’arte pop? Anche per Warhol l’opera d’arte è anzitutto un’opera di intelligenza, segue sempre la costruzione di un pensiero, prima ancora che di una forma. Si può affermare che la bellezza nella concezione contemporanea si ottiene attraverso la costruzione di senso, e nel caso specifico dell’arte attraverso la capacità dell’opera di interpretare la realtà, in chiave simbolica, attraverso un processo artistico.

In campo architettonico, è sempre la qualità dell’interpretazione dell’autore, riferita ad una data condizione (storica, sociale, geografica, economica, culturale, ecc.) che permette alla bellezza di manifestarsi. L’artista o l’architetto, da solo, anche se “geniale”, senza le vicissitudini che il rapporto con le condizioni dell’operare comportano, non produce senso e pertanto nemmeno bellezza. Anche per questo l’idea di bellezza è mutevole, cambia con il tempo e con le culture di riferimento. Opere considerate molto belle per una cultura in un determinato tempo e condizioni, possono diventare, con il tempo, brutte. Si può allora supporre che ciò che rende la bellezza più stabile sia proprio la quota di intelligenza che contiene, la qualità e la durata del pensiero che veicola?

La bellezza in architettura appare sempre legata al risultato di un pensiero/azione intelligente, che, se pur provvisorio, è sempre leggibile come un evento all’interno di un processo specifico, non può prescindere da una condizione di partenza che è collocata all’interno di un sistema di relazioni, il quale richiede necessariamente un’ interpretazione, un ricominciamento. L’ipotesi più probabile è che sia proprio la qualità di questa interpretazione che definisce la “sostanza” capace di produrre la bellezza. In definitiva possiamo dire che la bellezza in architettura si manifesta soprattutto dove c’è riflessione, fatica, conoscenza, consapevolezza di agire all’interno di un processo.

Per tutte queste ragioni, quando sento dire che un’opera di architettura è “bella”, immediatamente mi chiedo se l’opera contiene un pensiero, se è il prodotto di un’attività dell’intelletto collocata all’interno di un processo, poiché, per mio conto, la bellezza “in se” non esiste, e non è nemmeno inconoscibile, c’è sempre qualcosa d’altro che la nutre, la sostiene o la spiega. 

Fotografia di Davide Derossi – 2013 | Esempio di architettura del periodo Internazionale di Tangeri (1921-1956)