«I dodici giorni che vanno dalla vigilia di Natale alla notte dell’Epifania sono quel che resta dei riti di fine anno del modo antico ai quali il Cristianesimo ha dato un nuovo, decisivo, significato. Trasformando le cerimonie solstiziali precristiane – quelle che accompagnavano il trionfo del sole sull’oscurità invernale – nella celebrazione del dio che viene alla luce per redimere il mondo dalle tenebre del peccato. Le feste natalizie sono, dunque, il risultato di una millenaria stratificazione di simboli.» Marino Niola, “la Repubblica” 23/12/2010

Partito vent’anni fa, sotto l’assessorato di Fiorenzo Alfieri, come intervento pubblico per promuovere la qualità, per superare l’immaginario convenzionale dei festoni luminosi, le renne, i fiocchi di neve, le stelle comete di un Natale strapaesano, con Luci d’Artista Torino per prima aveva aperto un percorso che è diventato un punto di riferimento per molte città, un «atto di coraggio e al tempo stesso una intuizione. Partendo da una collocazione nel tessuto urbano si è raggiunta un’ampia fruizione. Incontrare opere ogni giorno crea confidenza con la contemporaneità» scriveva nel 1997 Ida Giannelli, allora direttrice del Castello di Rivoli.

Luci d’Artista sono un progetto su un progetto, elaborato in questo caso non da architetti ma da artisti, operatori della forma, della comunicazione, dell’idea; concepite come interpretazioni di spazi urbani, utilizzano l’architettura talvolta come supporto occasionale, spesso come specifica occasione di dialogo, su cui sovrapporre la luce e il colore come segno critico immateriale, come commento e trasfigurazione.

Da quegli anni siamo abituati ad associare gli scorci notturni della Mole Antonelliana alle luci fredde, uniformi e radenti che ne evidenziano con rispettosa sobrietà la tensione delle superfici, dalle rotondità della cupola allo slancio aguzzo della guglia, e al “volo dei numeri”, l’installazione di Mario Mertz che, con una sequenza di numeri luminosi ordinati secondo la serie studiata dal matematico Fibonacci, risale il costolone.

In quella scarna illuminazione, in quegli enigmatici segni che suggeriscono un ordine nascosto nelle forme della natura, ci era sembrato trovare una felice combinazione capace di esprimere, attraverso il detournement dell’arte, una interpretazione appropriata per una architettura singolare e per certi versi inquietante: l’ingegno e la sfida visionaria di Antonelli, l’abbandono della primigenia destinazione a tempio israelitico, i crolli e i nubifragi, il simbolo di una capitale mancata… Insomma, in quella intelligente combinazione di tecniche, risorse, intenzioni espressive, ci era sembrato di riconoscere un progetto capace di andare oltre i banali e ripetitivi cliché, spostando l’attenzione verso la ricerca artistica contemporanea, la comunicazione per immagine, le reti…

Quest’anno, con l’edizione di Luci d’Artista del Natale 2017, sulla Mole improvvisamente è apparso un nuovo allestimento luminoso, sovrapposto al precedente, fatto di led stroboscopici che ricalcano le costolature della cupola ed i timpani del tempietto, ne accendono la stella sommitale e da lì, ridiscendendo a grappoli, trasformano la Mole in un festoso albero di Natale. IREN presenta l’iniziativa come un dono alla città per celebrare i 110 anni dell’azienda, descrive con compiaciuto dettaglio le caratteristiche avanzate del sistema di illuminazione e le possibilità di modificarne a distanza le sequenze di accensione, il consumo limitato e il costo (30.000 euro). Nulla però ci dice né sulla concezione né sugli autori del progetto, segnando così una discontinuità marcata, sia per metodo che per contenuti, con l’esperienza legata a Luci d’Artista, di cui peraltro IREN è stata finora uno dei partner principali.

Si è trattato solo di una scelta tecnica e grafica (dalle superfici al wireframe, dall’invenzione artistica ai repertori dell’immaginario collettivo) o possiamo intravedere in essa l’affiorare di un nuovo clima culturale? Dalla laica, sofisticata e un po’ elitaria cultura metropolitana, dalle elaborazioni cosmopolite dell’arte concettuale, consapevoli della mutevolezza della storia, agli immaginari apparentemente stabili e rassicuranti, all’eterno presente della tradizione e del folklore?

Un percorso questo che, con preoccupante ricorrenza, accompagna in modo non sempre consapevole e lineare l’affermazione dei variegati populismi che, nella scena politica internazionale, cercano di tradurre in chiave politica il clima di insofferenza nei confronti della “casta”; insofferenza che dalla cultura dei salotti radical chic si estende ai politici, agli intellettuali, a tutti coloro che sono depositari di un ruolo di intermediazione tra specificità dei saperi e delle tecniche e vita quotidiana.

O non sarà forse, che con una felliniana Mole di Natale illuminata a festa si intende giocare con deliberata, trasgressiva ricercatezza a profanare gli statuti di un’arte contemporanea, in quanto troppo esclusiva, artificiale e affettata, condizionata dalle regole del mercato piuttosto che da quelle dei contenuti, ripercorrendo così l’itinerario concettuale che dal “kitsch” ha portato negli anni ’60 al “camp”, ossia alla sua rivisitazione in chiave ironica e parodistica…?

Fatto sta che il progetto ancora una volta diventa un fattore irrilevante, alla cui utilità IREN, così come gli altri enti preposti a governare l’immagine della Città, pare indifferente: si passa così dalla autorialità più glamour, dove il punto di vista singolare dell’artista diventa fattore di legittimazione, ad un fare anonimo e quasi automatico, riconosciuto idoneo in quanto distillato di modelli convenzionali e sedimentati. La luce è impalpabile, appartiene all’immateriale, non produce alterazioni fisiche sulla materia, cionondimeno il ruolo del progetto e del progettista sono determinanti per produrre invenzione, per tracciare una rotta che non è mai l’unica possibile. Il “progetto di luce” ha da decenni conseguito rilevanza tecnica e culturale, è uno degli aspetti più spettacolari del paesaggio urbano e si è visto riconosciuto un proprio statuto disciplinare e accademico; è uno dei molti modi per argomentare di architettura, non solo il prodotto della applicazione di formule illuminotecniche; con la luce si possono dire cose molto diverse: unificare oppure scomporre gli elementi architettonici, sottolinearli o stravolgerli, segnare i fuochi, gli assi, le gerarchie, identificare spazi con maggiore vocazione all’aggregazione, suggerire connessioni, indicare percorsi e direzioni, confermare o stravolgere i canoni percettivi, integrare con nuovi segni le informazioni che il manufatto già trattiene nelle sue membrature, fino a concepire e realizzare architetture di sola luce, che non contengono funzioni altre se non quella di comunicare la propria presenza.

Al di là del giudizio che se ne può dare, è oggi fatto storico riconosciuto che la presenza dell’architettura nel paesaggio urbano si sia progressivamente appiattita, concentrando la propria attenzione sugli involucri e sul loro incontro con la luce, diurna e soprattutto notturna; sul loro valore iconico e simbolico, comunicato attraverso pelli, membrane, texture, effetti visivi sempre più sofisticati e sorprendenti, dinamici e interattivi, modellabili ed eco-efficienti; affidandosi alla capacità di comunicare attraverso la vista, piuttosto che attraverso i caratteri dello spazio tridimensionale, con la loro reale o presunta capacità di interagire con i corpi e i comportamenti degli abitanti. Se è questa la sfida che si intende affrontare…

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