Protagonista principale e probabilmente unico, dell’iniziativa e al centro di una intensa campagna mediatica che i giornali, i dibattiti, le esplorazioni progettuale del Politecnico, le esternazioni di personalità e istituzioni responsabili del governo del territorio hanno sostenuto in questi anni, si colloca il così denominato “Parco della Salute”, un esteso insediamento nell’area dell’ex Fiat Avio, intorno al nuovo grattacielo della Regione, che andrà a riempire uno dei più consistenti vuoti lasciati dalla de-industrializzazione nella zona Sud della città. In quell’area ( più di 300.000 mq, più di 1000 posti letto, più di 170.000 mq di SLP, con una spesa prevista superiore ai 900 milioni di € tra capitale pubblico e privato) si concentreranno attività sanitarie ad alta complessità e di rilevanza internazionale, integrate da un sistema di attività legate alla ricerca e alla formazione, completate da funzioni gestionali e residenziali, da una specifica rete di commercio di prossimità, con una ricaduta consistente sul sistema della mobilità alle varie scale e da una vasta gamma di attività di servizio alle persone e alle imprese. Un insediamento che, promuovendo sinergie tra didattica, ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, garantirà una forte propulsione innovativa nel settore sanitario, di cui beneficeranno in misura certo molto ampia operatori a vario titolo, aziende, malati.
Insomma, un paese intero (considerando anche la presenza del grattacielo della Regione e del grandi flussi ad esso legati) che verrà inglobato dalla città e che cambierà sensibilmente gli equilibri tra le sue diverse parti, inciderà sulle sue reti infrastrutturali, modificherà le relazioni tra la città, il Paese e il mondo; si tenga conto – tra l’altro – del fatto che il Parco della Salute sarà complementare alla realizzazione di una “Stazione Ponte” in corrispondenza dello scalo Lingotto; una stazione che rivestirà un ruolo centrale nel sistema dei collegamenti dell’intera città e costituirà un ganglio vitale della città medesima.
Un paese la cui identità prevalente è rivolta alle funzioni connesse alla sanità (giusta o sbagliata che sia la scommessa di dedicare un nucleo urbano ad un unico settore), ma insieme un paese con il suo paesaggio, le sue attività, i suoi richiami simbolici, i suoi luoghi di aggregazione, di commercio e probabilmente di sport e tempo libero, attraversato da strade, piazze, giardini e infrastrutture, un paese con il suo centro e la sua periferia.
Un paese intero, un pezzo di città, da progettare, costruire, gestire, le cui scelte morfologiche, funzionali, sociali, economiche, dovranno innestarsi su un tessuto urbano esistente e fortemente caratterizzato dal punto di vista morfologico, storico, paesaggistico, dalla contiguità con elementi di forte rilevanza funzionale e simbolica quali Lingotto e Il Palazzo del Lavoro; sul definire i caratteri di quel paese intero la Città giocherà un ruolo minoritario, essendo previsto, a quanto si è finora appreso, l’affidamento in un’unico appalto di progettazione, forniture, costruzione e gestione dell’insediamento. L’affidamento avverrà nella forma (innovativa in Italia) del dialogo competitivo, dunque secondo un processo di progressiva verifica e confronto negoziato tra stazione appaltante e concorrenti, dunque anche sul merito delle scelte urbanistiche e architettoniche proposte, e questo aspetto costituisce certamente un progresso rispetto ai tradizionali appalti.
Ci rassicura la promessa dell’Assessore all’urbanistica, circa la realizzazione di aree verdi e la definizione di collegamenti con il resto della città, che gli edifici saranno alti non più di quindici piani, che l’insediamento del Parco della salute sarà improntato al dialogo con la ferrovia e con l’Oval, che i collegamenti viari saranno tracciati in continuità con il reticolo viario esistente al contorno, che si terrà conto del paesaggio della collina e del fiume. Ma resta una forte perplessità sugli effettivi margini di scelta che saranno concessi alla Città di Torino dai diversi partner istituzionali che vorranno privilegiare prima di tutto i propri obiettivi, e dai grandi operatori privati che concorreranno all’appalto e che vorranno garantire un loro profitto; e quanti operatori riterranno di esporre i propri capitali alla indeterminatezza e alla aleatorietà che la procedura negoziale comporta?
All’appello degli architetti che invoca l’opportunità del concorso di progettazione come strumento per selezionare i migliori progetti, si è opposta da parte della Regione l’argomentazione che la natura del progetto riveste tali caratteri di specificità e complessità tecnica da imporre altre forme di appalto, quale appunto il dialogo competitivo.
Il concorso di progettazione non costituisce di per sé la risposta a tutti i mali dell’architettura, l’esperienza dei concorsi fino ad oggi espletati in Italia hanno mostrato motivi per essere scettici sulla loro reale efficacia, ma credo necessario rilevare che il concorso di progettazione, nelle sue articolate fattispecie, può essere molto di più di quanto non si legga nella interpretazione diffusa tra politici, amministratori e, purtroppo anche tra alcuni architetti: un buon concorso di architettura è tutt’altro che un foglio bianco affidato alla libera ed estemporanea creatività dei progettisti. Per costruire un buon concorso di architettura, e non solo per il concorso, è estremamente importante ciò che avviene prima e dopo la fase del progetto: prima, la formulazione del programma, che deve contenere tutte le necessarie informazioni sul campo e tutte le linee guida che l’ente appaltante deve esprimere come atto di indirizzo politico; dopo, l’esposizione dei progetti come apertura del tavolo di confronto tra i diversi soggetti sociali coinvolti, quel dibattito pubblico che la legge prescrive, sulla base di elementi di conoscenza delle diverse prefigurazioni possibili, tradotte in un linguaggio comprensibile anche dai non addetti ai lavori, oggi reso ancora più facile ed immediato dalle tecnologie informatiche. Insomma, il progetto come strumento di democrazia!
Che ci sia attesa per comprendere cosa succederà lo dimostra la minuscola immagine di un misterioso planovolumetrico, pubblicato sulla Stampa il 21 ottobre scorso, di cui poi si sono perse le tracce.
Ciò che davvero manca non è la predisposizione degli strumenti più efficaci per arrivare alla realizzazione del miglior progetto, sia esso il concorso o altro. Ciò che manca è la capacità e la volontà di formulare un progetto, tecnico, urbanistico, ma soprattutto politico.
E una Città che rinuncia, proprio a partire dall’assenza di quel programma politico; programma che non si può riassumere nella definizione delle quantità di metri quadrati da insediare, per quanto dettagliati e articolati siano i progetti di fattibilità, e che conferma una abitudine ormai consolidata, che è passata di mano tra amministrazioni di diverso colore, a delegare ad altri la propria prerogativa civile e politica di essere protagonista delle proprie scelte di governo.
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