Noms Propres, intitolava Emmanuel Lèvinas una raccolta di saggi in cui chiama per nome alcuni di coloro che erano stati, storicamente, l’Altro del suo discorso: personaggi che con il loro lavoro hanno dato senso a momenti significativi di cambiamento: “nei tormenti ancora non placati della storia, mentre l’Altro si manifesta, contemporaneamente l’interrogante si svela nella sua distanza e nella sua prossimità”. Propre indica, mi pare, sia l’individuazione di una persona con un nome maiuscolo e un Volto, ma anche “l’esser senza macchia”, l’essere pulito.
Luca Gibello e Mauro Sudano, non hanno assunto il tono asettico dello storico delle idee o di quello delle strutture economico-sociali, ma hanno messo al centro del loro lavoro una persona, Francesco Dolza, senza però nulla concedere alla facile esegesi di un personaggio restituito nella sua forma migliore idealizzata e perentoria. Così pure mi pare abbiano avvertito che ogni discorso sulle strutture, sulle imprese, sui rapporti politico-economici, sulla stessa storia dell’architettura, se non rivolge l’attenzione a chi ha vissuto e guidato i mutamenti, rischia di essere una semplice presa d’atto, una constatazione, una presentazione del già detto, “ di ciò che c’è”, “ontologia della presenza”, e quindi si espone alla dissoluzione di un senso in quanto non si può parlare al nostro presente, scambiare indicazioni, stimolare scelte etiche.
Gli autori hanno interrogato il nome proprio, Francesco Dolza. Una persona che ha vissuto e percorso uno spazio e un tempo chiave della produzione edilizia torinese, spazio che egli ha contribuito con il suo lavoro a tenere aperto. Hanno rivolto domande – posto delle questions – alla sua storia, al suo lavoro, a ciò che ha progettato e costruito, alle opere che sono in qualche modo il Volto di noi architetti. In questo domandare, come ci dice Lèvinas, hanno attuato uno scambio di doni: “mentre l’Altro si manifesta l’interrogante si svela”. È in questo doppio movimento che l’indagine ci parla, supera la semplice constatazione: questo libro appartiene al reciproco donare.
Mi sono chiesto quali siano stati i motivi che hanno spinto due giovani che si affacciano ora sulle scene dell’architettura, a decidere di interrogare, con attenzione e delicatezza, una persona della generazione che li ha preceduti – forse quella dei padri – senza complessi edipici, né con quella sufficienza di chi spera e prevede che i giorni e le opere siano già passati oltre e, parlando di superamento, rivendica un salto, una cesura, una verginità rispetto al passato prossimo.
Non è un caso che questo studio si unisca ad altri che hanno già visto la luce. Ricordo gli scritti su Gino Becker, Domenico Morelli, Mario Passanti, Giorgio Ranieri, ai quali presto, certamente, altri seguiranno: occorrerà parlare di Augusto Romano, Elio Luzi, Sergio Hutter, Franco Fusari e di alcuni altri bravissimi.
Spero che questa voglia di interesse con un filo di continuità il presente con il nostro passato prossimo non sia soltanto volontà di rivendicare la propria discendenza e appartenenza a una scuola, agnizione che sovente è “invenzione della tradizione”, e neppure un lavoro filologico e classificatorio – meritorio ma non tanto – da seppellire nei fondi della biblioteca e da ostentare solo alla presentazione di titoli accademici.
Io spero che questo lavoro contribuisca invece ad una continua, incessante trasformazione e messa a punto degli strumenti e degli studi volti alla cura del nostro territorio, del nostro difficile fare architettura. Mi pare infatti, che non solo la storia degli oggetti, ma anche quella dei processi possa avvenire attraverso la coscienza – nel senso comune di “far coscienza” – di coloro che di questi cambiamenti sono stati nel bene, nel male o nel poco, il motore; e che hanno partecipato a scelte determinanti in cui etica ed estetica vanno confondendosi. Storie quindi, più di persone che di personaggi: non certo il romanzo biografico o la l’agiografia devono riprendere il campo, ma soprattutto credo che un lavoro attento come questo possa contribuire a una lettura non deterministica, non consolatoria, né catastrofica delle discontinuità e delle concessioni, ma tale da indirizzare ciascuno di noi a nuove scelte, a volte liete a volte sofferte.
È vero che scrivere su un Carlo Mollino e altri eroi può essere più gratificante ed editorialmente conveniente; è vero anche che, guardando i picchi si possono distinguere e rilevare catene montuose e valli, ma alla fine per capire la terra occorre percorrerla, sentire la durezza del suolo che è il nostro fondo, quello dove viviamo.
Questo “domandare” a Francesco Dolza attraversa la persona, osserva il volto delle opere, fruga negli archivi, si allarga e va oltre l’intervista per restituirci poi ampi tratti della trasformazione del panorama dell’edilizia piemontese in quegli anni.
L’intervista, ora in voga, sopportata dai media, ci piace, piace al pubblico, dà luogo a una intimità frivola, appaga la nostra colta pigrizia; ma il colloquio e ancor più il testo che lo restituisce rivelano che l’intimità e la segretezza sovente nascondono l’ostentazione. L’interrogato si fa esegeta di se stesso, si traveste, è paludato più che svelato: l’intervistato poi dovrà essere ridimensionato su ciò che realmente ha fatto.
Lo studio degli autori parte dalle tracce, dalle opere, segue diverse piste e ci restituisce non soltanto il lavoro di Francesco Dolza, ma la sua poetica, portandoci ai luoghi, alle tensioni, ai procedimenti, ai contatti materiali – storia delle imprese, delle committenze, dei quadri istituzionali – e ci fa vedere, attraverso l’ermeneutica del documento e l’interrogazione dei testimoni, ciò che oggi siamo e abbiamo, ciò che permane e ciò che muta. Così, interrogando l’ieri, riprende consistenza nello sfondo che talvolta ci sembrava sfocato, talaltra un peso ingombrante che grava sui nostri orizzonti di attese.
Credo che non sia mio compito riassumere e sottolineare qui i vari argomenti del volume: le attività delle imprese Dolza e Coimpre, i cantieri di prefabbricazione, gli edifici per l’industria, per le residenze, per i loisir ecc. Vorrei soltanto invitare il lettore a una riflessione su un tema di solito un po’ marginale ma che può offrire agli storici della città spunti interessanti: il tema delle “sopraelevazioni”.
I regolamenti ed il mercato edilizio negli anni della ricostruzione aprivano una facile strada a quei proprietari e imprese che si proponevano di costruire sul costruito. Accanto ai molti progetti che tenevano poco in conto altre questioni che non fossero quelle statiche ed economiche, ci fu chi avvertì il problema, non tanto come faremmo oggi, per mettere in discussione la liceità dell’intervento, quasi che costruire sopra o a fianco sia cosa analoga, ma lavorando tra mimetismo e differenza sulle giustapposizioni statistiche, tra moderno e non. Ricordo fra i molti il citato Becker, Levi Montalcini, Gabetti e Isola e altri. Credo che da queste esperienze positive, negative, ma pur sempre problematiche, sia nata una coscienza più attenta e non solo polemica del rapporto tra nuovo ed esistente, quasi che questo contatto, questi “innesti botanici” tra passato e presente abbiano messo in crisi con la loro evidenza i limiti e le certezze di molti paradigmi troppo scontati della cultura architettonica del tempo. Francesco Dolza non ha certo ignorato il problema: la sopraelevazione in Via Monginevro mi sembra tra gli interventi più riusciti; gli schemi formali si sviluppano a partire dalle strutture per trovare la giusta misura delle forme e dei materiali, riuscendo a cogliere le occasioni di continuità e di stacco: sovente alla pianta madre giova l’innesto della nuova fronda.
Qualche volta mi coglie una curiosità un po’ peregrina: mi domando dove in me, ma anche nei miei amici architetti, incominci l’“architettura”, quanto in essi si espanda e se vi sia un contorno che delimiti in noi il mondo dell’architettura rispetto a quello della vita. Sospetto che, se c’è una divisione al nostro interno, questa si rifletta in qualche modo anche in quella separatezza che c’è tra “essere” e “abitare”, e quindi dia luogo a quel senso di estraneità, di crudeltà che le nostre architetture e le nostre stesse città presentano. Domande peregrine perché so bene che per fare un lavoro scientifico, un lavoro critico, occorre saggiamente operare ritagli di campo, argomentare, verificare e non solamente narrare – che è compito di chi scrive romanzi.
Così mi è piaciuto scorrendo questo testo, ritrovare il Volto di Checco Dolza: quello che eccede l’architettura, ma che, in qualche modo ancora la contiene.
Talvolta, quando leggiamo monografie di personaggi che abbiamo conosciuto, ci rendiamo meglio conto che più sono “ben fatte” e precise, tanto più la figura del protagonista ci è restituita in modo stranamente iperreale, quasi che lo sguardo, limitato a una parte del tutto tondo del volto, anziché a un’allusione, a un ritratto abbozzato, dia luogo invece a un eccesso di realismo, a una maschera troppo ben verniciata. Si crea uno stacco irritante. Qui, ed è merito degli autori, credo di poter cogliere discreti e attenti accenni al mondo della vita e non solo a quello dell’architettura: quasi che accanto, in controluce alla cultura perentoria dell’impresa e della committenza, si stagli l’umanissimo carattere che Francesco Dolza ha portato fin dentro al suo difficile mestiere.
Mi sembra che questo libro, ma non vorrei leggerlo al di là delle intenzioni degli autori, colloqui atteggiamento progettuale di Francesco Dolza in uno spazio diverso – in un certo senso al di qua e al di là – di quello che occupavano altri architetti e ingegneri attivi tra atelier e imprese in quegli anni. Ciò che emerge e mi importa far rilevare, non è tanto la singolarità dello spazio che Francesco Dolza si trova a gestire a causa del suo doppio compito di progettista e di imprenditore, ma il fatto che in quello spazio nodale non comune egli non opera una semplice mediazione ma, con naturalezza e coraggio, riformula radicalmente, pone e imposta alla radice quei problemi – tra produzione e progetto – che ancora oggi sono sul tappeto. Sono quei nodi sui quali in modi diversi, allora come oggi, i più attenti provano a lavorare senza attendere le lusinghe di occasioni straordinarie per progetti straordinari, con strutture straordinarie, ma nemmeno omologando programmi già deboli con progetti banali: in un caso o nell’altro svendendo, oltre all’anima il territorio e il paesaggio.
Qui entra in gioco quella che mi piace definire la “leggerezza sofferta” di Francesco, fatta di spleen e di humour, di passione e disincanto. Sofferta perché Francesco ha saputo prendere sul serio prefabbricazioni, layout, committenze articolate, severe e sovente dure e cieche, ma anche le esperienze e i linguaggi della cultura, e non solo quella architettonica, esprimevano in quegli anni.
Per Francesco Dolza “prendere sul serio” ha significato non tanto mitizzare, come hanno fatto i più, tecnologie o programmi economici, enfatizzandoli in forme metaforiche, in ciniche citazioni o in ludiche caricature o, peggio, risolvendo i temi in banalità omologanti, ma ha voluto dire invece, ricondurre i dati e gli sviluppi del progetto a quella dimensione di leggerezza che ridà agli oggetti dell’architettura, “dal balcone allo shed”, quella misura umana fatta di urbanità e di ironia, che genera l’appartenenza.
“Leggerezza” parola che la letteratura recente ci restituisce non come gioco frivolo, spettacolo, ma come gesto poetico, umanissimo di chi sa guardare le cose del mondo “da vicino e da lontano”, con distacco e con la consapevolezza di esserci dentro; “sofferta” non soltanto perché la leggerezza si scontra con la durezza delle istituzioni e delle strutture della cultura, ma anche perché senza risolvere l’incontro in tragedia o in farsa, ne accetta le contraddizioni, le assume come parte del proprio operari e ne fa la propria poetica.
Noto qui che la leggerezza, se così si può dire, di Mollino, è ben diversa: in lui il gesto è quello dell’acrobata, perfetto geniale, ma concluso in sé, irripetibile. Può indifferentemente disegnare la curva tracciata dallo sci sulla neve, la voluta di un looping di aereo sul cielo, il “colpo di frusta” di uno schizzo più volte rilucidato fino a diventare perentorio. In Francesco Dolza, che pure ha lavorato e ha guardato a Mollino, vi è il senso umano del limite e della misura, apertura al contributo dell’ascolto e del colloquio, segno di continuità nel tempo per sé e per gli altri: come nelle collaborazioni con Mario Megna, Maria Coletti e con i più giovani.
Mi è difficile – chiedo scusa agli autori se per un istante prevarico il loro lavoro – quando parlo di amici architetti, di persone con cui ho condiviso la “fatica dell’arte” tenere separata la figura dell’amico da quella dell’architetto, la persona dalle sue opere, stabilire quel limite di cui ho detto prima. Vorrei in queste righe, per qualche istante, saper vincere il pudore dell’amicizia.
È forse inevitabile, nello scrivere la critica dell’architettura, conservare un atteggiamento troppo “serioso” che può dar spazio ad una nociva mimesi che induce a credere che l’architettura esaurisca e fagociti, negli architetti “bravi”, l’identità della persona.
Nascono in questo modo, nelle storie, personaggi e costruzioni un po’ mostruosi anche se geniali, staccati dai mondi più grandi della vita e della cultura. Si descrive un mondo di eroi che, per eccessivo amore del mestiere e delle sue ideologie, si sono dannati – ils ont perdu leur âme, citava Roberto Gambetti – mentre con loro anche l’architettura ha perso il senso dell’essere-abitare.
La felice “leggerezza sofferta” che ha, secondo me, improntato tutto il lavoro di Francesco Dolza, va insieme alle qualità maturate nei gesti dell’arte e della vita: la bellezza di un uovo che galleggia nello spazio-chioccia di fili sottilissimi, alcuni disegni e installazioni che risentono di prossimità maturate nell’area di Carluccio – personaggio chiave della cultura della Torino di quegli anni – e in quella della galleria Galatea allora in Via Viotti; esperienza nelle posture dell’attore, dei passi di danza – è troppo facile citare una non lontana discendenza culturale dal teatro di Gualino? – e il colpo ben rifinito da bravo tennista; ma non posso trattenermi dal ricordare anche le avventure “da pionieri” in mari lontani, allora quasi inesplorati, e quel sorriso di Checco quando risalivano da profondità a rischio con gli erogatori in emergenza!
Ecco, ho evocato queste immagini di architettura e di vita perché sono convinto che da Checco abbiamo imparato tutti, chi l’ha conosciuto e chi no. Sono cose che giustamente non si trovano nelle cronache e nelle storie scritte del mestiere, ma che, mi pare, possano essere raccontate ai giovani come invito a lasciare entrare dalle finestre dei loro studi, atelier, ricerche, l’aria fresca di “ciò che c’è”, e a dimenticare, per qualche istante narrazioni fatte di eccessi e di eroismi, di maestri e di monumenti, ma anche di routine e di banalità; storie che una tradizione un po’ “esclusiva” dell’architettura ci ha consegnato nel tempo.
Credo che lavori come questo contribuiscano a portare nuovi elementi a quegli studi, oggi lodevolmente in corso, che sono necessari al mutamento: gli autori hanno colto come Francesco Dolza abbia contribuito a radicare, nella costruzione della città che cambia, pratiche che, collegando diversi attori e operatori, patrimoni culturali e capacità tecniche, hanno reso possibile la ricomposizione del nostro abitare, dei nostri paesaggi; gli autori hanno raccontato come il difficile rapporto con il mondo dell’impresa – duro e impenetrabile forse allora più di oggi – e con il committente (dall’esigente Signora al duro Costruttore) sia stato vissuto dall’architetto e dall’uomo in modo sofferto, ma anche ricco di quelle aperture necessarie per dare amenità e leggerezza ai nostri luoghi, troppo spesso toccati dalla violenza.
Scritto pubblicato in M. Sudano, L. Gibello (a cura di), Franceso Dolza: l’Architetto e l’impresa, Celid, Torino 2002 e in A. Isola, Anche le pietre dimenticano, Aión, Firenze 2011.