In questi tempi di ansia straboccante – in cui i cittadini segregati si aggrappano ad ogni possibile fonte di rassicurazione, per placare il proprio malessere con qualche sguardo sul futuro che ci si prepara – perfino gli architetti, la cui categoria non ha mai conquistato significative posizioni nelle classifiche della popolarità e della attendibilità, oggi popolano i media nel ruolo di oracoli capaci di prefigurare il divenire del mondo, una volta superata la pandemia.
Sui giornali e sui canali radiofonici, troviamo quasi quotidianamente interviste ad architetti che provano a tratteggiare il divenire di case e città, oscillando tra il ragionamento lucido, sobrio, argomentato e pertinente (poche); compiaciute esibizioni di raffinata astrazione e di linguaggi ricercati, così esasperate e rarefatte da risultare incomprensibili al pubblico dei non addetti ai lavori (parecchie); ripetitivi cataloghi di modelli virtuosi che dovranno caratterizzare un mondo “tutto diverso” da quello conosciuto (un’altra epidemia).
Il retrogusto che qua e là si percepisce, è l’inappagato narcisismo di chi non perde occasione per accennare distrattamente al proprio “cursus honorum”, al proprio prestigio sociale, alla propria capacità di prevedere l’imprevedibile; per spostare lo sguardo dalla profondità delle disuguaglianze che la pandemia mette in primo piano, alla fatuità delle prossime evoluzioni del mercato del lusso: come direbbe Maria Antonietta, “se non hanno pane, che mangino brioche”.
Mi permetto immodestamente di segnalare che quei modelli virtuosi, che oggi vengono riproposti come scenario di un mondo prossimamente rinato dalla pandemia, da molti anni sono stati raccomandati – anche da autorevoli rappresentanti del mondo delle discipline scientifiche, della politica, della cultura, delle scienze sociali – per riconfigurare il rapporto tra Uomo e Ambiente, per rimediare alle derive di un pianeta minacciato dalla prepotenza di un modello di sviluppo arrogante e agli effetti delle sperequazioni sociali. Ma nulla è valso finora a modificare le traiettorie già tracciate dagli stessi leader che oggi ci guidano nel tentativo di contrastare gli effetti della pandemia.
Segnalo anche che riproporre oggi lo stereotipo dell’architetto fatuo e civettone, guru “creativo”, maestro del futile e dello stravagante, significa condannare ancora una volta la nostra credibilità e legittimazione sociale, assegnando alla categoria del superfluo ogni nostro possibile contributo, nel momento in cui sarà possibile celebrare la conclusione della fase di pandemia.

Nella condizione di isolamento che stiamo vivendo, e nelle previsioni del futuro immediato, i nostri itinerari non possono che limitarsi a trasferimenti programmati e diretti dalla casa all’ufficio, dalla casa al supermercato, dalla casa alla farmacia e via di questo passo; anche nella prospettiva di un progressivo allentamento delle misure di distanziamento, sarà molto improbabile che in tempi contenuti si possa tornare ad usare la città e lo spazio pubblico “come prima”.
Sottrarre ogni aspetto di casualità nei nostri percorsi al di fuori dell’ambiente privato, apporterà un cambiamento radicale alla natura dello spazio pubblico, annullando ogni possibilità di incontro fortuito, di sorprendente confronto con realtà inattese, di ripetere l’esperienza del “flaneur” che si confonde tra gli altri cittadini impegnati nel lavoro, nel tempo libero o nello shopping.
Insomma, annullando ogni effetto di quella che viene chiamata “serendipità” – un termine un pò sofisticato, di origine letteraria ma ormai ricorrente nel dibattito sulla città, che significa imbattersi in una cosa inattesa mentre se ne stava cercando un’altra – che costituisce un nodo essenziale per comprendere i meccanismi che amplificano il carattere dinamico delle città e concorrono a determinare l”effetto urbano”, ciò che ha individuato nel fitto e intenso intreccio dell’esperienza urbana il generatore di opportunità per oltrepassare i nuclei stabilizzati del sapere esistente e, attraverso il confronto tra universi culturali diversi, accelerare i processi in divenire verso l’innovazione, l’integrazione e l’avanzamento sociale, da cui l’isolamento ci tiene lontani.

In un antico (1982) intervento su Casabella, Gianni Vattimo definiva l’atto del progettare come fondato sulla capacità di oltrepassare i saperi consolidati, le verità metafisiche pietrificate, per prefigurare ≪qualcosa che ancora non c’è≫ a partire dalla capacità di interpretare i luoghi e i processi, per aprire uno squarcio di plausibile Futuro. Questo, degli scenari futuri, è una delle ricadute psicologiche più inquietanti che accompagnano la tragedia in cui siamo immersi e che assume un carattere determinante nel nostro lavoro dei progettisti, sia esso rivolto al nuovo che alla trasformazione dell’esistente; scenari che sono oggettivamente inconoscibili, dal momento che ben poco si sa degli effetti del virus, che il processo è tuttora vigorosamente in atto e, attraverso una catena di effetti imprevedibili, ci può ancora riservare sorprese sconvolgenti.
Come è allora possibile oggi progettare una scuola, un museo, un albergo o quant’altro se non abbiamo idea di quale sarà lo scenario in cui quel progetto sarà collocato e di quanto potranno essere riproponibili in esso i nostri modelli consolidati? Quando ci accorgiamo che la pandemia produce un continuo mutare dei nostri comportamenti, sconvolge le gerarchie di valori che li informano, quando scopriamo ogni giorno nuove minacce e nuove opportunità e ogni giorno ridefiniamo il rapporto tra diritti e doveri? Credo che questa sia una condizione molto particolare di paralisi; se qualcuno di noi fosse stato in passato vicino alla morte (ognuno adotti le opportune scaramanzie), avrebbe potuto comunque formulare una prefigurazione del futuro dei restanti. Oggi non è così, non possiamo che basarci sulle testimonianze del quotidiano; nel nostro (ipotetico) fare progettuale, l’unico scenario che abbiamo di fronte è il proseguire di una infinita e sospesa condizione emergenziale, i cui connotati sono peraltro in continua trasformazione.
Proprio quella condizione di “normale” emergenza – che abbiamo ripetutamente denunciato, come esito della incapacità dei Governi di affrontare, con prospettiva ampia e vista lunga, il degrado del territorio, la tutela dei patrimoni artistici e culturali, dell’ambiente ecc. – ci si impone beffardamente, oggi, come una emergenza “straordinaria” e totale, cogliendoci tutti egualmente impreparati. L’unico indirizzo che ci appare coerente con l’esercizio delle nostre competenze nella totale indeterminatezza dell’oggi, va forse nella direzione di manufatti e sistemi di emergenza, mobili, provvisori, flessibili, replicabili e adattabili ad ogni situazione; il desolante contrario di ogni idea di Architettura come interpretazione dei luoghi, dei contesti, del divenire della Storia a cui ci siamo appellati fino a ieri.

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