I luoghi dell’orrore

Una serie di delitti efferati hanno occupato le cronache italiane nei primi anni del nuovo millennio; in molte delle cronache di quei delitti ricorreva, con una frequenza inquietante, la tipologia insediativa a cui quei delitti erano associati: la villetta. Quella di Cogne, di Garlasco, di Perugia, di Avetrana, di Novi Ligure ecc.

Ora, io non ho alcuna competenza da criminologo, ne alcun elemento “scientifico” che mi permetta di suggerire una plausibile relazione di causa ed effetto tra crimini e villette. Chissà quanti crimini sono stati commessi in condomini, alberghi, scuole…..

Tuttavia, come architetto e dunque osservatore delle relazioni tra forme insediative e comportamenti sociali, non posso sottrarmi al sospetto che la contiguità, per quanto  mediaticamente deformata, tra sociopatie e particolari configurazioni urbane non sia un fatto del tutto casuale. 

Prevalentemente unifamiliare, distaccata dalla strada, delimitata da recinzioni che solitamente contornano l’edificio e un piccolo giardino, dove gran parte della vita trascorre tanto al chiuso quanto all’aperto, senza dover condividere la propria esperienza con altri al di fuori del proprio nucleo familiare, la villetta assume in questo momento storico una connotazione di chiusura difensiva.

Più che l’utopia salutista della città giardino, la villetta contemporanea evoca la squallida distopia del paesaggio peri-urbano, dello sprawl, della crisi dei ceti medi ormai marginali rispetto ai ruoli dinamici, alle garanzie e allo status che li aveva sostenuti nello scorso secolo. Domina l’idea di una insicurezza percepita, di un rapporto difficile con la dimensione urbana avvertita come ostile. Forse, non una vera e propria patologia, ma certo la proiezione concreta di un disagio, esorcizzato con l’isolamento, potenziale terreno di coltura per altre è più gravi espressioni di disturbo sociale.

La crescita delle disuguaglianze, i processi di marginalizzazione, la smaterializzazione dei poteri politici ed economici, hanno prodotto fenomeni esasperati come le “gated communities” da un lato e la militarizzazione dello spazio pubblico dall’altro, entrambe reazioni scomposte alle emergenze della criminalità, del terrorismo, del disagio sociale, di una dimensione sempre più plurale, complessa e contraddittoria dei legami sociali.

In un’ottica transcalare, quelle villette sembrano anticipare l’inversione di prospettiva globale che si registra in questi ultimissimi anni, entro realtà nazionali anche molto diverse tra loro: le nevrosi sociali e culturali, le politiche che rincorrono e amplificano lo smottamento emotivo che sta pervadendo le società originariamente aperte e interconnesse, producono nuclei di comunità e realtà geopolitiche sempre più chiusi e arroccati nel proprio isolamento.

I luoghi dello scambio

Il commercio costituiva, nella città di otto e novecento, uno dei principali elementi della struttura urbana, generando in molte parti della città una stratificazione stabile delle attività ai diversi piani degli edifici. La presenza commerciale, nelle strade e nelle piazze gerarchicamente più elevate, insieme con altre funzioni legate alle istituzioni e ai servizi amministrativi, alla cultura, alla salute, alla formazione, al turismo e alla ristorazione, garantiva animazione e presidio sociale. Un assetto della città e della scena collettiva che dimostra come il concetto di spazio pubblico, la sua fruizione e la sua elaborazione progettuale non possano essere descritte dalla sola dimensione orizzontale. Ad uno sguardo più attento, lo spazio pubblico ci appare descrivibile solo da un insieme di rappresentazioni ad almeno 3 dimensioni: dalle quinte fisiche che lo delimitano, dalle funzioni che vi sono insediate, dalle immagini, dai suoni e dagli odori che lo pervadono, dalla maggiore o minore permeabilità ai flussi di persone, cose, sguardi, informazioni che possono aumentare o diminuire il livello di comunicazione e le potenzialità di aggregazione. Ovviamente, anche il Tempo – con il suo divenire, i cicli e le ricorrenze –  assume un ruolo determinante nel descrivere i caratteri dello spazio pubblico.

Oggi, questo assetto della città storica ci appare ormai definitivamente scompaginato: prima, la crisi del commercio a gestione familiare, che subiva l’aggressiva concorrenza dei grandi centri commerciali, ha sgretolato la configurazione tradizionale tra la città e i luoghi del commercio e la relazione tra edifici e suolo pubblico, rendendo più vuote e insicure le strade e le piazze e ponendo un difficile interrogativo sul possibile uso dei piani terreni delle case.

Poi, la stessa formula dei grandi centri commerciali ha iniziato a rivelare chiari sintomi di fragilità, sotto la contemporanea pressione di una crisi economica ormai strutturale, che ha ridotto il potere di acquisto delle famiglie, e della crescita delle piattaforme di e-commerce. Una crescita esponenziale tuttora in divenire, che sta oggi imponendo una nuova trasformazione a scala antropologica dei modelli di consumo, della logistica, della mobilità, delle relazioni tra persone e con la materialità delle merci, fino a incidere sugli stessi immaginari urbani.

Insieme ai luoghi del commercio consolidati dai nostri immaginari – il frastuono dei mercati e l’esibizione delle merci lungo le esclusive vie dello shopping, i negozi di prossimità come estensione delle relazioni di vicinato, i chioschi e le edicole come piccoli nodi di reti sociali – inizia a configurarsi una nuova figura urbana: il “centro di distribuzione”. Forse, qualcosa di intermedio tra Il polo logistico, il magazzino industriale, il centro commerciale, il punto di ritiro self-service; un’architettura che si annuncia come un luogo opaco e scarsamente penetrabile, un ulteriore spinta ad accorciare il raggio dei propri rapporti interpersonali, a rinchiudersi nella propria tana, a cancellare dal nostro orizzonte culturale il concetto ampio di luoghi dello scambio (si scambiano merci ma anche segni, comportamenti, informazioni…) per ridurli a dispositivi di puro trasferimento logistico.

I luoghi del contagio

Le cronache di questi giorni rimbombano di un evento che oltre alle ricadute sulla sanità, sulla emotività di massa, sulle politiche internazionali, è destinata a disegnare una nuova mappa geografica delle relazioni planetarie, a formulare nuove gerarchie e nuove unità di misura per prossimità e distanza, a indicare nuove categorie di spazi aperti e chiusi, permeabili o impermeabili, connessi o isolati.

L’epidemia del corona virus, rischia di riconfigurare le forme insediative invertendo il verso del divenire del mondo, evocando immaginari dove i bordi, i limiti, le demarcazioni, si trasformano da luoghi di contatto in muri e barriere di separazione.

La Peste di oggi costituisce un paradossale effetto collaterale dello sviluppo tecnologico: il diffondersi della contaminazione non è più esclusivamente la conseguenza di culture sanitarie arretrate; è, anzi, la prova della vulnerabilità di una mondo altamente interconnesso, che compromette quel che resta della fiducia in una società senza barriere.

La velocità dei vettori, la fitta rete di aste e nodi di comunicazione che riveste i territori, le lunghissime concatenazioni di merci, di componenti, di dati e persone che la percorrono, costituiscono ormai una necessità vitale al vivere contemporaneo, assicurano la solidità dei sistemi produttivi ed economici, garantiscono la circolazione e l’accessibilità della conoscenza e dunque forniscono un contributo indispensabile anche al contrasto delle stesse epidemie.

Ma nella nevrosi, nell’angoscia che rappresenta la malattia oscura di questi decenni di crisi, nella incapacità di affrontare il peso della complessità, la prospettiva facilmente si inverte, cambia drasticamente di segno, e sono proprio i nodi di connessione ad assumere il cupo aspetto della minaccia incontrollabile.

«L’epidemia è una figura che andrebbe iscritta di diritto nella fenomenologia della paura umana per il contatto. Non a caso nella città cinese colpita dal virus il primo appello delle autorità è stato quello di evitare i luoghi pubblici: chiudersi nelle proprie case, sbarrare l’accesso dell’estraneo al nostro luogo più privato, è un altro gesto fondamentale correlato alla paura del contatto. Solo nella nostra casa ci sentiamo al sicuro. La chiusura nella propria casa rovescia la nostra esposizione al pericolo del contatto con l’estraneo.» scrive Massimo Recalcati su la Repubblica del 4 febbraio, cogliendo il nesso profondo tra pulsioni primarie dell’essere umano e forme dell’abitare.

Sulla scena del territorio si agitano fenomeni sempre più complessi, ambigui, difficili da decifrare, a maggior ragione quando essi si intrecciano e si sovrappongono, in base a combinazioni che ci paiono casuali, ma forse non lo sono del tutto: il senso che attribuiamo loro è profondamente influenzato dagli opposti paradigmi in base ai quale scegliamo – consapevolmente o meno – di orientare i nostri indirizzi ideologici e di conseguenza i nostri comportamenti, il nostro modo di prefigurare il futuro, le nostre scelte nel campo dell’Architettura, dell’Urbanistica, delle relazioni sociali.

Ciò che davvero rappresenta un pericolo per il divenire del mondo è rifugiarsi nell’identità di branco, sfuggendo ad ogni interpretazione dialettica della complessità, oscillando pericolosamente tra individuale e collettivo, tra assoluto e indeterminato, tra chiuso e aperto, tra concentrato e diffuso; rinunciare a intravedere nel muro la soglia, nel confine il luogo di confronto, nella membrana la permeabilità, nel centro il convergere delle opportunità, nell’esteso l’occasione dello scambio.

Tutto ciò può riguardare il modo di concepire un edificio, di articolare un nodo del tessuto urbano, di dar forma alla linea di demarcazione tra categorie diverse dello spazio fisico, percepire il fascino coinvolgente di situazioni in cui si producono intersezioni e confronti inediti, ibridazioni, innesti, contaminazioni.

Photo Central Mihrab, Sikander Lodi’s Tomb wall mosque with its enclosure wall and bastions, gates & compound on commons.wikimedia.org