Indagine su un cittadino al di sopra d’ogni sospetto

Il regista Premio Oscar Elio Petri nel film Indagine su un cittadino al di sopra d’ogni sospetto (1970) ambienta l’abitazione del commissario Gian Maria Volonté ovvero il “Dottore” nel Villino (1969) in via Colli della Farnesina a Roma dell’architetto Francesco Baraducci (1924-1992). 

La struttura brutalista in cemento armato a vista diventa l’elemento scenografico dominante, dando senso drammatico alla vicenda del kafkiano poliziotto Volonté. Il racconto narra che (da Wikipedia) “… il giorno stesso della sua promozione, al comando dell’ufficio politico della Questura di Roma, un dirigente di Pubblica sicurezza, il “Dottore” (del quale per tutta la durata del film non viene fatto il nome), fino a quella mattina capo della sezione omicidi, uccide con una lametta Augusta Terzi (Florinda Bolkan), la propria amante, nell’appartamento di lei, quasi per gioco. Alla fine del film “… il protagonista, al di sopra di ogni sospetto, dopo avere seminato indizi d’ogni genere al fine di essere scoperto, s’impone gli arresti domiciliari: nella sua casa, senza alcun mandato da parte della magistratura a tale scopo … Il film si chiude con l’immagine della palazzina, ripresa dall’esterno, delle tapparelle che si abbassano nella stanza in cui il protagonista ha appena, su sua insistenza, ricevuto gli inquirenti per arrestarlo … che però non vogliono accusarlo per ragioni politiche …”. Un film bellissimo da vedere e rivedere, una delle migliori interpretazioni di Volonté.

L’edificio con la sua brutta/bellezza (un ossimoro architettonico) è un capolavoro, trattato – malgrado le ampie e luminosissime finestre – dal regista Petri come un claustrofobico luogo, un bellissimo carcere filosofico. Emozionanti sono gli interni nel quale si svolgono gran parte delle scene, nell’abitazione di Baraducci stesso, con le pareti divisorie in cemento e paramano (a volte dipinto di bianco), tutti gli arredi disegnati appositamente come era uso fare all’epoca, con qualche pezzo di design storico messo qua e là. Gli architetti di un tempo operavano nella tradizione con i loro artigiani, fabbri e falegnami, decoratori, tappezzieri, progettavano l’edificio e gli arredi integralmente. Ancora dopo Seconda Guerra Mondiale c’era una minima produzione industriale, commercialmente diffusa sul territorio. Il committente, di cultura avanzata, cercava l’unicità e l’originalità disegnata a sua misura. 

A quanto ricordo solamente Thonet (1819) e l’AEG (1883), già nell’800 facevano disegnare i loro prodotti e gestire la loro immagine da noti architetti designer come Joseph Hoffmann o Peter Behrens. Marcel Breuer, studente al Bauhaus di Weimar (1919-1925), poi docente di falegnameria e di tecnica del metallo a Dessau (1925-1932) cominciò nel 1927 a produrre in piccola serie i suoi mobili in tubolare metallico, tra cui la sedia Wassily (1925). Nel mondo la produzione industriale standardizzata d’autore iniziò a svilupparsi dopo gli anni ’50. Cassina (1927) a Meda in origine era un laboratorio artigiano che costruiva mobili in stile e solamente dopo gli anni ’50 iniziò a produrre la Sedia 646 (1952) di Giò Ponti, mentre negli Stati Uniti Knoll International nacque nel 1938, ma la produzione industriale della sedia e del tavolo Tulip in fibra di vetro e marmo dell’architetto Eero Saarinen iniziò nel 1956. Solo con IKEA negli anni ’80 si consolida il concetto Bauhaus di democratizzazione del “bel design” per tutte le tasche. 

Le fortificazioni della Linea Maginot in primis, poi quelle tedesche sul Canale della Manica, lungo le coste italiane e anche quelle giapponesi nelle Filippine, sono importanti per comprendere dove e come maturò l’esperienza del cemento armato brutalista. L’idea di mimeticità, di perfetto inserimento nel paesaggio, in sostituzione della pietra, la durabilità e la falsa idea di indistruttibilità furono con la malleabilità plastica le motivazioni che portarono al suo utilizzo smodato.

L’architettura brutalista è uno dei momenti espressivi più innovativi e rivoluzionari del ‘900, il totale abbandono delle tecnologie classiche vitruviane. Il cemento armato, grazie al calcolo, sia per la modellabilità basata sulla tecnologia della cassaforma, sia per i tempi di lavorazione, sia per l’aspetto simile alla pietra, diventa la soluzione per realizzare ogni genere di costruzioni. Permettendo forme assolutamente originali rispetto al passato. Le Corbusier, Kahn, Tange, BBPR, Rudolph, Smithson, Sterling, Testa, Perugini, Baraducci, Michelucci, ne sono i grandi interpreti. Ne ricordo uno in particolare, Carlo Scarpa (1906-1978), i cui lavori, a mio avviso, sono la summa teologica brutalista, in particolare la Tomba Brion (1970-1978) a San Vito d’Altivole.

I bassi costi, e gli alti benefici e la velocità di esecuzione, permisero nel dopoguerra di costruire in un brevissimo lasso di tempo le grandi infrastrutture di cui l’Italia aveva bisogno: affidate a progettisti come Zorzi, Morandi, Nervi. L’uso del cemento armato diede accelerazione allo sviluppo economico sociale del paese, già iniziato negli anni ’30 e interrotto per più di 5 anni dal demenziale conflitto mondiale.

Con questo vorrei ricordare Le Corbusier scultore. Le sue opere (1887-1965) hanno un grosso legame con le sue architetture brutaliste, ne sono la continuazione, il completamento (Chandigarh). L’integrità artistica di Le Corbusier, la classicità, il suo essere creativo potrebbe essere paragonata a quella di Gian Lorenzo Bernini ove architettura, scenografia, scultura, pittura convivono in unicum. Non c’è soluzione di continuità stilistica tra Le Corbusier architetto, scultore, pittore, designer, teorico dell’architettura. 

Per assonanza cito l’Art Brut di Jean Dubuffet (1901-1985), perché molte sue opere di grandi dimensioni sono architetture primordiali, alti e lunghi muri interni e esterni, caverne, montagne, un rigoglio di personaggi geometrici, iconici, giganti, ironici, bislacchi, buoni di cuore per meravigliare, divertire grandi e bambini. Ove il bianco, il nero, i colori primari dominano come in Le Corbusier. Tra i due esiste sicuramente un sottile legame espressivo determinato dalla cultura Art Brut del tempo. Ci fu un’importante mostra di Dubuffet (1978) alla Promotrice di Belle Arti di Torino curata dall’architetto Andrea Bruno (1931): e sua è la Villa Studio Gribaudo (1974) a Torino, fortemente brutalista.

Nella foto una sequenza del film di Elio Petri – interni del Villino in via Colli della Farnesina a Roma progetto F. Baraducci