Dove non ho mai abitato (2017)
Dove non ho mai abitato (2017) di Paolo Franchi, tre nastri d’argento — al produttore, al regista e allo scenografo — un film molto puntuale, post neorealista con tematiche esistenzialiste, sulle vicende di una famiglia di architetti torinesi, che mi rimanda emotivamente a tre professionisti della storia dell’architettura d’interni e del design del ‘900 dei quali non bisogna assolutamente dimenticarsi, tre torinesi di grande creatività: Carlo Mollino, Toni Cordero e Jeannot Cerutti.
Carlo Mollino (1905-1973) — docente del Politecnico di Torino — con i suoi arredamenti: Casa Miller (1938), Casa De Valle (1939), Casa Minola (1944), Casa Orengo (1949), Casa Mollino (1960) — una sua sedia di legno e metallo, degli anni ’30, ha fatto il giro del mondo e la storia del design, la si vede pubblicata da George Nelson nel repertorio delle sedie contemporanee, Cairs, New York, (1953) (quando negli USA si andava ancora in nave).
Da bambino, in vacanza a Cervinia, abitavo proprio in uno degli appartamenti della Casa del Sole (1955), completamente arredato con i suoi mobili — I mobili di Mollino sono sparsi in tutti i musei del mondo. Il Comune di Torino nel 1989 gli ha dedicato una mostra alla Mole Antonelliana, Carlo Mollino 1905-1973, curata dall’architetto Carlo Viano. Catalogo Electa, (1989).
Altri maestri significativi nel campo dell’arredamento sono: Toni Cordero (1937-2001) e il suo primo assistente Jeannot Cerutti, che poi lo ha lasciato per fondare un proprio studio, JDM Partners. Cordero e Cerutti, due protagonisti del design internazionale, vicini alla cultura del progetto storico milanese, veneziano e parigino: quella di Caccia Dominioni (1913-2016), di Franco Albini (1905-1977), di Giò Ponti (1891-1979), di Carlo Scarpa (1906-1978), di Pierre Chareau (1883-1950) e di Robert Mallet Stevens.
Artisti architetti, Toni e Jeannot, che hanno progettato, ristrutturato, arredato, parecchi edifici storici — dimore moderne e antiche — di ricche famiglie borghesi e aristocratiche, l’immagine di grandi gruppi industriali, catene di negozi, palazzi degli uffici. Cito due loro capolavori realizzati per privati: rispettivamente il Palazzo Levoni (1995) a Mantova e la Maison Jacque Ginet (1982) a Parigi (Avenue Victor Hugo – Villà Eylau 8), dove Cerutti crea qualcosa di unico ispirandosi a Chareau. Sedie, tavoli, divani, tavolini, letti, cucine, bagni, lampade, oggetti d’arredo d’ogni tipo, serramenti, maniglie, interruttori… Tutti pezzi unici di cui, alcuni, diventati in seguito piccola e grande serie industriale.
Toni Cordero condivide tra gli anni ’60/’80 diversi lavori e importanti clienti con Sergio J. Hutter (1926-1999) — tra le personalità professionali più importanti e geniali della nostra città — ed il suo studio tra i cui collaboratori Elena di Rovasenda (già collaboratrice di Giò Ponti dal 1969 al 1971) e Antonio de la Pierre. Uno studio che ha realizzato gran belle cose. Ne cito alcune, perché la gente tende a dimenticare e non va bene, come: la Palazzina Merz a Torino (1961), Villa Frescot Agnelli (1971), Casa Nasi (1972), Residenza Ginatta (1972), Villa Tealdo (1973), l’Università di Torino “Palazzo Nuovo” (1968), l’ Ex Cinema Astor (1991) a Torino, la Sede Zust Ambrosetti (1995) a Moncalieri, l’Istituto Bancario San Paolo (1996) a Torino, la Stazione Ferroviaria Torino Caselle (2001) a Caselle, il Teatro Sociale (2004) di Pinerolo. Circa 250 tra progetti e concorsi. Per fortuna in parte raccolti nel volume di Guido Montanari Architettura tra ricostruzione e transizione, 2004 Edizioni Libra.
Purtroppo ad oggi nessuno ha dedicato a Toni Cordero un Wikipedia, un Website, uno straccio di volume. Ecco un elenco molto parziale di suoi lavori a parte le decine di abitazioni private: la Fabbrica di Staff International a Noventa del 1998, la Catena di negozi Kenzo (1981) in Europa ed USA, la ristrutturazione del Palazzo Montecatini (1982) di Giò Ponti a Milano, la trasformazione in Galleria e Foresteria di un Edificio di culto (1983) a Londra, il restauro del Palazzo del Banco Mediceo (1984) del Filarete (1400-1469) a Milano; il negozio CP Company (1990) a New York, il negozio Alberto Biani (1994) a Parigi, la New York Industries- ristrutturazione degli uffici e dello show-room (1994) di Milano. A livello di Home furniture e lighting design ha progettato, tra gli altri, per Acerbis, Driade, Artemide, Sawaya & Moroni e Oluce.
E, a Torino, non solo loro… nel 2008 lo Studio De Silva Associati cura l’allestimento e la comunicazione — in collaborazione con l’architetto Tamara del Bel Belluz — della mostra alla Cavallerizza Reale Design per Abitare, arredi di architetti torinesi ove è esposto il design dei più eminenti architetti cittadini da metà degli anni ’60 in poi, un bel cast: Franco e Nanà Audrito, Giorgio Ceretti, Jeannot Cerutti, Toni Cordero, Giorgio De Ferrari, Pietro Derossi, Roberto Gabetti, Aimaro d’Isola, Sergio Jaretti Sodano, Elio Luzi, Lorenzo Prando, Giorgio Raineri, Riccardo Rosso.
La trama di Dove non ho mai abitato è molto semplice tutta vissuta in ambienti della Torino “bene” per la quale tre personaggi architetti lavorano… da Wikipedia: “Francesca si è trasferita a Parigi da 20 anni, dopo la morte della madre e la laurea in architettura, contro la volontà del padre, famoso architetto egocentrico e prevaricatore. Tornata a Torino a fargli visita, viene coinvolta dal padre Manfredi nella ristrutturazione di una villa insieme a Massimo, architetto del suo studio. L’incontro tra i due, e la morte del padre, metteranno in discussione la forzata ricerca di equilibrio di Francesca”.
Capisco il rifiuto di Francesca a fare l’architetto. I figli degli architetti sanno qual’è la storia dietro ad ogni padre professionista, i sacrifici, le delusioni, le incomprensioni, i costi spaventosi per portare avanti lo studio. Francesca e Manfredi, figlia e padre, sanno che il successo è effimero “Goditi questi attimi di effimera gloria” ripeteva all’orecchio del conquistatori di popoli, un liberto, mentre sulla biga percorrevano i Fori romani acclamati dalla folla.
Dove non ho mai abitato, anche se parla di una cinquantenne depressa e dei suoi problemi d’identità, di una faticosa storia irrisolta con il padre, centra proprio l’ambiente sottomesso e disperante del mondo professionale di Torino; rispetto a certe famiglie che malgrado i grandi patrimoni non sono portatrici, come nell’antichità, di importanti committenze, perché avare, poco colte, pigre, senza volontà di protagonismo, non dedite al mecenatismo. Famiglie che hanno creato quella staticità che neppure un evento come le Olimpiadi del 2006 ha potuto sbloccare. Quell’immobilità fatalista che non ha nulla a che fare con il buon capitalismo. Il mio primo lavoro l’ho venduto a 16 anni vi posso dire che il mondo torinese, in cui ho operato, è effettivamente depressivo, frustrante, altalenante, che non induce speranza anche quando il successo incombe sorridente. Mio padre Emilio, a noi figli, diceva: “Fare l’architetto libero professionista è un mestiere bellissimo. Ma se non volete morire di fame fate i manager in un grande gruppo industriale, sempre che ne abbiate le qualità”. La vera ragione per cui si è trasferito a Torino.
La location principale del film è la Villa Avigliana (2011) ad Avigliana, una costruzione mono-famigliare, a fianco di una casa rurale, realizzata dall’architetto Ugo Bruno di UBA Studio, ripartita in tre parallelepipedi razionalisti, con grandi vetrate, che si dispongono a quote differenti e collegati attraverso un sistema di scale e rampe d’accesso. Tre volumi che formano un cavedio con copertura vetrata. Una “serra” concettuale che ospita piante di bambù. Parlare di bel progetto è riduttivo. Fortunato chi ci abita.
Nella foto Villa Avigliana ad Aviglina | progetto di Ugo Bruno UBA Studio