A partire dagli anni ’30, Los Angeles diventa la città dell’architettura sperimentale d’avanguardia, futuristica, attraverso quattro linee di ricerca: la lettura e rivisitazione del razionalismo da parte di Rudolph Schindler e Richard Neutra; il programma sperimentale (Arts&Architecture) del Case Study Houses di Neutra, Koenig, Saarinen, gli Eames, etc.; la corrente organica wrigthiana di John Lautner; il decostruttivismo di Frank Gehry. Una rivoluzione nel gusto dell’abitare, del modo di vivere, dell’apparire.
Realtà lontanissime ideologicamente dagli stereotipi dalle ville holywoodiane degli anni ’30/’50 ove imperversava l’American Art Décò, abitate dagli attori e dalle attrici, dai miliardari, dai produttori, il mondo di cui parlava Variety. L’architettura International Style e l’arredamento contemporaneo (industrial design) erano apprezzati da pochi, anche in Italia se ne parlava ma nessuno ci voleva abitare in case si fatte; lo stesso film di Tati, Mon Oncle (1958), è basato sull’ironia e sul rifiuto della modernità, della architettura tecnologica di Villa Harpel. Infatti nel cinema di allora non si vedono palazzi e le abitazioni “moderniste”, fanno capolino solo in film relativamente recenti. In Europa la maggior parte delle abitazioni medio-borghesi erano arredate con mobili d’epoca. Pochi benestanti utilizzavano gli architetti per costruire e arredare, un’elite: gli arredamenti di Mollino si contano sulle dita di una mano. Lo so perché sono figlio, nipote, di architetti. Fin da bambino ho vissuto sempre in case particolari, strane, eccentriche arredate con mobili disegnati dai miei famigliari o da designer italiani (ne cito alcuni) Albini, Caccia Dominioni, Zanuso, Magistretti, lo stravagante Fornasetti, ma anche statunitensi come gli Eames, Corey, Saarinen che lavoravano per Knoll (1938), mobili ancora oggi insuperati per comodità e eleganza. Allora c’era solo la rivista Domus a orientare il gusto, la compravano solo gli architetti. Riviste di divulgazione come Interni, Casa Vogue, Gran Bazar etc. hanno iniziato a pubblicare negli anni ’70/’80.
Per fortuna è arrivata Ikea, pur nella sua bassa qualità, attraverso il prezzo, il catalogo, il marketing ben mirato, l’imitazione dei grandi designer, ha portato il vento dell’ideologia riduzionista bauhausiana della contemporaneità nella vita di moltissimi. Un po’ di aria pura, pur contaminata dalla praticità svedese, nella stantia cultura dell’abitare.
C’è un bellissimo esempio di villa degli anni sessanta fatta conoscere al mondo dal cinema: la Garcia House (1962) di John Lautener, insieme alla sua ”controfigura” che la riproduce accuratamente, interpreta alla perfezione un action movie come Arma letale 2 (1989) di Richard Donner. Con Mel Gibson, David Glover, Joe Pesci e Patsy Kensit.
Il sequel del film Arma Letale racconta del detective Martin Riggs (con manie suicide) che non teme la morte, fissato nel ricordo della moglie assassinata da una banda di malavitosi, sempre in coppia con Roger Murtaugh un nero con una bella famiglia. I due devono proteggere un supertestimone. Ma costui è nel mirino dei suoi ex datori di lavoro, una gang di sudafricani che spacciano droga in Usa, coprendosi con l’immunità diplomatica. Una sequenza continua senza un attimo di tregua di colpi di scena violenze sparatorie e esplosioni, in una di queste a far le spese è proprio la Garcia House quando viene strappata dai suoi ancoraggi, precipitando dall’altura su cui è collocata.
L’unicità delle varie residenze di John Lautner ha fatto di esse le protagoniste versatili e trasversali ai generi cinematografici di molti film dagli anni ’80 in poi:
La Jacobsen House (1947) è nel film di contenuto paranormale Twilight (2008) Catherine Hardwicke; il soggiorno circolare della Elrod House (1968) lo troviamo in Agente 007 una cascata di diamanti (1971) di Guy Hamilton; la Reiner House, conosciuta anche come Silvertop (1967), compare nel film tratto da Bret Easton Ellis, Al di là di tutti i limiti (1987) di Marek Kanievska. La Schaffer Residence (1949), è l’abitazione del protagonista di A Single Man (2009) di Tom Ford; la Sheats-Goldstein House (1963) la troviamo nella commedia Il Grande Lebowski (1998) dei Fratelli Coen.
Photo Harpel House by Masha Slavnova on flickr.com