Il film Guerra e pace (1956) fu girato a Cinecittà e a Torino con la co-regia di Mario Soldati. Al Movie Club, negli anni ‘70, dedicammo al regista King Vidor una rassegna di sue opere, ove proiettammo pellicole salvate (con molti salti e spezzoni mancanti). All’epoca era complesso proporre al pubblico un ciclo dedicato a un unico autore; lo si poteva fare solo grazie alla rete di anarco-appassionati che collezionavano le “pizze” ritirate dal circuito delle sale e mandate al macero, sparsi in tutto il paese. Anche Maria Adriana Prolo ci prestava i film: la fondatrice del Museo nel Cinema teneva la sua storica collezione a Palazzo Chiablese, si entrava da una porticina in vetro nel sottoportico comunicante Piazza Castello con Piazza San Giovanni. Nella rassegna, tra i tanti lungometraggi, oltre a Guerra e pace, proiettammo Passaggio a Nord-Ovest (1940) con la splendida fotografia di William Skall, primo film di Vidor girato in technicolor, con un set totalmente in esterni ambientato nell’Idaho e nell’Oregon, interpretato da Tracy, Yung, Brennan e la Hussey. E La fonte meravigliosa (1949), storia di Howard Roark un individualista visionario architetto che arriva al successo, interpretato da Gary Cooper. Una sceneggiatura tratta dal best seller di Ayn Rand, frutto di una lunga corrispondenza con Frank L. Wrigth. Per le location la produzione chiese proprio a Wrigth ma – a causa dell’alto compenso richiesto – ripiegò sul giovane scenografo Edward Carrere, il quale disegnò gli edifici in stile internazionale, poco wrigthiani,
Fu Mario Soldati, anche sceneggiatore, a scegliere le location del nostro film in edifici storici bellissimi e però poco noti al mondo: la facciata e lo scalone di Palazzo Madama (1718) e la Palazzina di caccia di Stupinigi (1733) di Antonio Juvarra, il Castello del Valentino (1638) di Carlo e Amedeo Castellamonte, la Villa Ternavasso a Poirino. Queste architetture così celebrative, nel film, riescono a dare enorme credibilità ai personaggi e agli eventi narrati. Sembra proprio di essere in Russia. Con il ghiaccio e la neve finta ben fatti, difficile capire se gli edifici sono di Mosca e di San Pietroburgo. Le città russe le si conosceva da rare cartoline, da foto in bianco/nero sulle riviste o nei libri di storia dell’arte, pochi i filmati. Anche volendo era complicato documentarsi. Senza contare che i palazzi storici dell’aristocrazia e del potere in Russia, dell’epoca in cui si svolge la storia del film, sono il frutto della creatività e progettualità di grandi architetti italiani del sei-sette-ottocento, specialmente a San Pietroburgo: Domenico Restrini, Francesco Rastrelli, Antonio Rinaldi, Giacomo Quarenghi, Carlo Rossi. Non diversi per gusto e stile da quelli torinesi.
La sceneggiatura del film riduce enormemente la complessità del romanzo di Lev Tolstoj. Ad essa parteciparono parecchi autori di grande capacità come Mario Camerini. La riassumo facendo un copia e incolla da Wikipedia: “Durante la Campagna di Russia di Napoleone, l’ufficiale vedovo Bolkonskij si fidanza con la giovane Natasha, ma quando lei si infatua di un altro scioglie il legame. La guerra li farà perdere e ritrovare a Mosca mentre la città brucia, ma davvero non è destino e la ragazza resta di nuovo sola. Troverà consolazione in un altro uomo”. Tutto avviene tra battaglie, con veri cannoni, vere carrozze, vere bardature, vere divise militari armi d’epoca. E con un cast italo-statunitense sorprendente: Audrey Hepburn (Nataša Rostova), Henry Fonda (Pierre Bezukhov), Mel Ferrer (principe Andrej Bolkonskij), Vittorio Gassman (Anatole Kuragin). Herbert Lom (Napoleone), Oskar Homolka (generale Kutuzov), Anita Ekberg (Helena).
Guerra e pace si svolge a Palazzo Madama, luogo a pochi passi da Piazza San Giovanni, e questo mi permette di operare un raffronto tra la città contemporanea e quella moderna, che non potrei inserire in altri articoli di questa rassegna periodica. In particolare svolgere considerazioni sugli edifici che delimitano la Piazza San Giovanni stessa, negli ultimi anni al centro di un dibattito, a scapito della memoria di uno dei più insigni architetti della città: Mario Passanti. Parlo proprio del Palazzo degli uffici tecnici del Comune di Torino (1961), realizzato con P. Perona e G. Garbaccio, per difenderlo dai detrattori, confrontandolo alle qualità estetiche degli altri fabbricati, le cui peculiarità non si possono certo portare come esempio d’eccellenza.
Mi sembra che il disprezzato Palazzaccio sia tra tutti quello meglio proporzionato, rispettoso degli altri edifici storici, non diverso come ingombro prospettico urbanistico del preesistente distrutto dai bombardamenti: l’uso del paramano, la cura dei particolari, i balconi e il coronamento in mattoni forati, la pianta bipartita sfalsata a risolvere uno spazio difficile da progettare. Analizziamo gli altri: la Facciata del Duomo (1505) di Meo del Caprino, un puro esempio di nulla progettuale, ove anche le pietre che la rivestono sembrano state scelte con svogliatezza e distrazione; uno stock di seconda qualità. Messe a caso? La facciata di Palazzo Chiablese (1754), indefinibile, neppure ascrivibile ad un periodo storico con le balaustre di loggiati quasi indecifrabili. Sono loggiati? Sono finestre? L’Alfieri dov’era quando l’hanno costruito? La Torre campanaria della Cattedrale (1469), sproporzionata rispetto alla chiesa a parte la sommità nella quale si vede la gran mano di quel genio di Juvarra che però data la tozza preesistenza non è riuscito ad alleggerirlo sufficientemente. E dietro … la Manica Nuova (1903) di Emilio Stramucci, con sotto la vista dei resti del teatro romano, un ammasso di sassi, scavalcati da un ponte ad archi e una passerella con scale in ponteggio tubolare. L’angolo dei Giardino archeologico delle Torri Palatine (1994) è – ne parlano male solo gli invidiosi – un buon l’intervento di Aimaro d’Isola che però, malgrado le creative, solide, belle colonne in paramano e pietra, ha “ciccato” il design dei lampioni di gusto secessionista. Ognuno realizzato con corone di foglie intorno a quattro palle di vetro, così mal fatte, da far accapponare la pelle a Otto Wagner. Il corto lato del neoclassico Seminario metropolitano (1711-1793) di Pietro P. Cerutti e Carlo Ceroni, in continuità con un edificio molto più basso, con balaustra, su cui spicca una grande insegna luminosa “Lane Germania”. Sembra che nessuno degli architetti del passato, a parte Passanti, si sia minimamente interessato all’unitarietà della piazza. La piazza prima dell’intervento di Passanti esisteva?
A mio avviso il dibattito non si sarebbe dovuto neppure aprire. È l’insieme degli edifici, non tanto la qualità architettonica degli stessi che fa di questa piazza un oggetto urbanistico unico e invidiabile. Vigilato dall’alto da un capolavoro assoluto: la cupola della Cappella della Sindone (1694), il Guarino Guarini incarnato.