Gli autori di film sono sempre a caccia di belle e coinvolgenti location. Per questa ragione svolgono, non sempre consapevoli, un grande compito: quello di promuovere la storia dell’architettura e della città. In compenso la maggior parte degli spettatori non si interessa all’architettura in cui si svolge il film, importante quanto i personaggi, la trama, etc. Lo spettatore tende a non investigarlo, a non analizzarlo nei particolari costruttivi.

Nell’autunno 1983 mi recai a Parigi, un viaggio tra lavoro e piacere, tra cinema e architettura. Lo feci per consultare gli archivi fotografici dei Cahiers du Cinéma, dovevo curare la grafica del Catalogo sulla Nouvelle Vague (1985) per il Festival del Cinema Giovani. E, da turista, per realizzare un programma ambizioso: visitare la Maison de Verre (1928) di Chareau, la Casa Tristan Zarà (1927) di Loos a Montmartre, la Maison Paul Poiret (1922-25) di Robert Mallet-Stevens a Mézy-sur-Seine. Ma ahimè, proprio quest’ultima, mi portò via gran parte del tempo disponibile, fu complicato arrivarci, era proprio fuori porta. La casa la trovai in totale abbandono, disastrata, pericolante, non visibile all’interno e la vidi solo di sbieco dal cancello d’ingresso della tenuta e da una collinetta. Una delusione.

Il 21 giugno del 1991, nel corso di una festa alla villa in abbandono, 17 archistar – tra i quali Richard Meier, Tadao Andö, Arata Isozaki, Frank Gehry, Norman Foster, Ricardo Bofill, Rem Koolhaas, Coop Himmelblau, Christian de Portzamparc e Jean Nouvel – furono invitati a presentare progetti di recupero della Maison Poiret. Dopo il declino la rinascita.

Nel 2012 grazie al film Holy Motors di Leos Carax scoprii che Villa Paul Poiret, era stata finalmente restaurata. La residenza fu realizzata su progetto razionalista di Robert Mallet-Stevens ma modificata nel 1932, dopo il fallimento di Paul Poiret, da Paul Boyer nello stile tardo Deco denominato paquebot e ispirato alle forme dei piroscafi, come si può vedere dagli oblò e dalla prua tondeggiante del basamento-terrazzo. Purtroppo l’impianto razionalista del giardino con vasca, piscina e vialetti non è stato ricostruito. Quindi la casa, come impatto, ha perso l’aspetto originale integrale; allora non c’era soluzione di continuità d’immagine, di stile, tra la costruzione, gli arredi interni e il giardino: tutto era stato progettato nei minimi particolari.

In Holy Motors Leos Carax sceneggiatore, enfant terrible del cinema francese, per la struttura del racconto si ispira a Joice, a Pound e a Eliot, in un film di citazioni. Ventiquattro ore della vita di monsieur Oscar (Denis Lavant), un attore metamorfico che parte la mattina da Villa Poiret (1922) e viaggia da un personaggio all’altro le avanguardie artistiche e memorie di film, cambiando continuamente identità: assassino, mendicante, presidente di una società, operaio, mostro, padre di famiglia, mimo contorsionista, feticista, maniaco sessuale. In Holy Motors Parigi diventa un enorme set e la limousine un camerino.

Oscar “personaggio mitologico” è accompagnato da un’assistente angelo custode, Céline (Édith Scob), la bionda autista che lo conduce da un posto all’altro per le vie di Parigi. Film metafora sulla morte del cinema meccanico e la sua resurrezione digitale? Film Post moderno? Neo surrealista? Grottesco? Film Hard Sex Porno? Tutto e di più.

Tra citazioni letterarie e continui cambiamenti di genere, di contenuti: da Le Testament d’Orphée e Orphée (in cui l’angelo è proprio un autista) di Jean Cocteau a Angela di Luc Besson; da Entr’acte di René Clair a Il gobbo di Notre Dame di Wallace Worsley; dalle Cronofotografie di Man Ray ai Nudi in movimento di Muybridge. Ci sono le avanguardie costruttiviste russe, ma anche il realismo sovietico del dipinto La difesa di Pietrogrado di Alessandr Daineka; il cinema giapponese e il rimpianto per le avanguardie sperimentaliste del ‘900. E il primo film di Kubrick, Il bacio dell’assassino (1958), con manichini sparsi tra plastiche trasparenti in un magazzino abbandonato Art Nouveau.

Per spiegare meglio, ecco la sinossi minimale del film. Nel prologo Oscar, al risveglio, dopo essersi alzato dal letto, smonta con una mano – il cui indice è una chiave a tubo svita bulloni – la parete di una camera rivestita con una tappezzeria di tronchi di betulle, per entrare di soppiatto in una sala cinematografica nascosta, ormai dimenticata. In seguito Oscar esce da Villa Poiret per trasformarsi, in limousine, in mendicante gobbo che striscia come un lemure lungo il Pont Alexandre III. Lo vediamo poi vestito da saltimbanco che percorre, in alto, la passerella della fabbrica con un cilindro porta attrezzi sulla spalla, somigliante alla custodia di un fucile; lo rivediamo poi mentre esegue movimenti di arte marziale e copula nell’oscurità con una bella contorsionista, anche lei punteggiata di luci. Entrambi riproposti sullo schermo, grazie al motion capture, in un film fantasy ove Lui diventa un verde drago con un lungo pene bianco e vischioso che scopa con Lei circense trasformata in una rossa draghessa: due mostri credibili, ben fatti, con lunghe avvinghiate erotiche code; di seguito la sequenza ove Oscar è lo zigano Hypocrites che suona la fisarmonica e canta insieme ad altri musicisti itineranti.

E via continuando con l’uso smodato delle citazioni: l’omicidio/rinascita/omicidio di un sosia, Leos Carax stesso, feticista di sé stesso. I vecchi amanti, entrambi attori, che si incontrano di notte su un terrazzo di fronte a l’Île de la Cité con sullo sfondo Notre Dame illuminata. Lei, Eva Grace (Kylie Minogue), che toltesi le scarpe e la parrucca bionda, si getta nella Senna suicida insieme all’amante Direttore (Michel Piccoli). Il travestimento nel clochard Monsieur Merde orbo da un occhio, scalzo, che percorre I sotterranei di Parigi di Eugene Sue, supera colonne di uomini, donne e bambini macilenti e sbuca da un tombino tra le tombe del Père Lachiase, ove un dissacrante demente firmaiolo ha scritto sulle lapidi Visitez mon site internet. Nel cimitero Merde incontra Kay M. (Eva Mendes) che rapisce, dopo averla leccata sotto l’ascella, ricoprendola con un burca e portandola nel sottosuolo di Parigi (vedi La bella e la bestia di Madame Villeneuve). Ed è nei sotterranei che, con il pene eretto, si addormenta poggiando la testa sulle cosce della bellissima Kay mentre lei gli canta la ninna nanna. Oscar, alla fine del film, dopo tanto vagare per Parigi torna a casa in famiglia, non a Villa Poiret, ma in un brutto appartamento della banlieue, ove si scopre che moglie e figlia sono due scimpanzé. E la chiusa … con le limousine nel garage Holy Motors che parlano tra loro utilizzando le luci di posizione.

Il film lascia stremati. Ma va assolutamente visto. Ne esiste una buona documentazione critica facile da consultare.

Photo Maison Paul Poiret (1922-25) di Robert Mallet-Stevens