Tra le opere di architettura contemporanea torinese, irrimediabilmente rovinate da interventi di ristrutturazione, c’è il Palazzo Vela (1961) di Annibale e Giorgio Rigotti. Autrice dell’intervento di riconversione da struttura espositiva in palazzo dello sport per le Olimpiadi Invernali è Gae Aulenti, l’architetto milanese specialista in stupri seriali di edifici altrui.
Ne rammento altri tre, la riqualificazione della Gare d’Orsay (1900) di Victor Laloux, l’allestimento del Museo Nazionale d’Arte Moderna presso il Centre Georges Pompidou (1977) di Piano, Franchini e Rogers a Parigi e la ristrutturazione di Palazzo Grassi (XVIII sec.) a Venezia.
È proprio nella ex stazione parigina della Gare d’Orsay, molto prima dell’intervento in stile assiro-babilonese della nostra connazionale, che si svolge il film Il processo (1962) di Orson Welles. Ove lo scenografo Jean Mardourux crea lo spazio “kafkiano” nel quale Welles riprende i personaggi dal basso verso l’alto, schiacciandoli sull’opprimente volta di ferro e vetro, riprese contrapposte in sequenza a quelle appiattenti dall’alto verso il basso. Con controcampi continui nella diegetica semi oscurità “interiore” dell’edificio: le fughe in corridoi “optical art” del perseguitato Josef, la salita delle scale con i bambini all’atelier dell’artista, i claustrofobici tunnel sotterranei in mattoni. Nel film tutti quanti gli interpreti sono partecipi di una giustizia incomprensibile. Gli attori Antony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider, Elsa Martinelli, Arnoldo Foà e lo stesso Orson Welles si muovono come manovrati da un demiurgico automatismo; tutto accade senza possibilità di far valere le proprie ragioni tra le ambiguità, le reticenze, le complicità di oscuri, ambigui, personaggi, donne corrotte. Una denuncia del potere dispotico dell’ignoranza, dei pregiudizi e dei luoghi comuni sulla ragione.
Un’altra location in cui si svolge il film di Welles è il Palazzo di Giustizia di Roma, sede della Corte suprema di Cassazione, realizzato tra il 1889 e il 1911 in stile eclettico, neo-rinascimentale-barocco, opera dell’architetto Guglielmo Calderini (con dietro una storia drammatica da rileggere e valutare), un monumentale capolavoro in travertino. L’edificio dove Antony Perkins esce dal tribunale, tra le statue dei giureconsulti e le enormi incombenti colonne, ove incontra la nipotina quindicenne. Una sequenza da vedere e rivedere specialmente per la fotografia e per i movimenti di macchina. Grande cinema? Si. Il più bel film di Welles.
Purtroppo non sono riuscito a collocare la location, la città, ove si trova l’edificio nel cui interno è posta la Corte di giustizia dove avviene l’apologia di Josef K. Una costruzione liberty in ferro, di pianta quadrata, con un loggione sui quattro lati a spalti degradanti con sedili, simile un palazzotto dello sport per il pugilato. Forse a Zagabria? Certo è che l’interno e l’esterno della chiesa dove si svolge l’incontro di Josef K. con il suo avvocato Hastler è proprio l’antica Cattedrale di Zagabria (origine XI sec.)
Il film, inoltre, ci porta in un altro importante luogo, a Opatija. Un’isola dell’adriatico che deve il suo nome a un’abbazia benedettina, e dal 1800 un elegante luogo di villeggiatura della nobiltà austroungarica. Ricca di architetture ottocentesche molto interessanti. Ove hanno soggiornato lo scrittore irlandese James Joyce, il compositore austriaco Gustav Mahler, il rivoluzionario russo Vladimir Iljič Lenjin, l’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria.
Prima di chiudere la mia segnalazione vorrei chiarire il motivo della pesante critica all’Aulenti: avere completamente eliminato la forte originalità dell’opera di Rigotti per inserire sotto la vela un gratuito nuovo edificio. Anonimo, di nessun valore estetico, uno sperimentalismo distruttivo che non ha portato innovazione, realizzato in modo sciatto. Inoltre, non avere colto che l’edificio si poteva mantenere integro, pur cambiando la destinazione d’uso, costruendo solamente all’interno senza eliminare le grandi strutture vetrate, una distruzione ideologica demagogica che ha trasformato l’oggetto architettonico in una realtà di cui vergognarci. Lontano dalla lezione di due grandi del ‘900 italiano Franco Albini e Carlo Scarpa a cui tutti dobbiamo molto.
Mi piacerebbe che il Palazzo Vela di Torino fosse ristrutturato filologicamente – pur mantenendo la costruzione realizzata dalla Aulenti – ricollocando le facciate strutturali in ferro e vetro del 1961. Penso che le vetrate dovrebbero starci senza abbattere nessuna parte della recente costruzione che rimarrebbe all’interno. Chi dovrebbe pagare per questo scempio? CONI, CIO, Comune di Torino? Coloro che per superficialità e ignoranza lo hanno permesso.
foto del Museo d’Orsay di Tim Wildsmith su www.unsplah.com