Professione reporter è un film del 1974, quattordicesimo lungometraggio diretto da Michelangelo Antonioni (1912-2007) con Jack Nicholson (David Locke) nella parte del giornalista, Maria Schneider in quella dell’amante di David e Steven Berkoff (Stephen).

In Professione reporter compaiono, in reale veste di attrazione turistica, il Palau Güell (1989) e la Casa Milà (La Pedrera) (1912) declinazioni architettoniche moderniste (Art Nouveau) realizzate a Barcellona a cavallo tra Ottocento e Novecento dal genio di Antoni Gaudì. Gaudì e i suoi committenti con queste e molte altre opere influirono decisamente sul futuro turistico della città di Barcellona (importantissimo porto commerciale e militare dai tempi di Jaime I d’Aragona).

Ma cosa dire del rapporto di Antonioni con l’architettura? L’architettura non riveste, per il maestro ferrarese, un ruolo diegetico. Però la troviamo sempre citata, in particolare quella moderna, come se lui volesse segnare, evidenziare, una relazione tra i sentimenti, la psicologia, la cultura dei suoi personaggi con lo spazio costruito e/o l’epoca che ha prodotto l’edificio. La sede della Montedison di Gio Ponti, il grattacielo Pirelli di Nervi e Ponti, alcune case di Moretti, gli edifici di Gaudì a Barcelona, il Palazzo dello Sport di Nervi e Piacentini a Roma, la villa di Soleri che esplode nel deserto dell’Arizona. Pochi “attimi fuggenti” per ogni edificio. In tutto, nei suoi diciannove film, ha dedicato all’architettura non più di venti minuti.

Da Wikipedia “… David Locke, un giornalista di successo, lanciato nella professione ma ormai sazio e annoiato dalla vita, scopre un giorno l’opportunità di ricominciare tutto da capo: rinvenuto il cadavere di un uomo che gli somiglia, inscena una finta morte e assume l’identità del defunto. Mal gliene incoglie: l’uomo era un trafficante d’armi che riforniva il movimento di ribellione a un piccolo dittatore africano …”.

Molto bella la sequenza iniziale del film: dalla camera d’albergo e poi, con un lento e progressivo movimento, la macchina da presa passa attraverso le sbarre della finestra stessa, prosegue sulla strada (ove nei minuti seguenti avvengono cose significative), per poi rientrare nell’albergo e raggiungere di nuovo il letto su cui giace il protagonista …”.

Prima dell’uscita di Professione reporter, dopo Blow Up (1966) e Zabriskie Point (1970), leggendo la critica, pensai a un tentativo di rinnovamento da parte del regista. Mi ero fatto la strana idea che Antonioni avesse voltato pagina, fosse uscito dai suoi stereotipi, dai dolorosi personaggi esistenzialisti, dal tema della crisi della modernità … Però, quando lo vidi, fin dalle prime sequenze ebbi, malgrado la fotografia di Luciano Tovoli, innovativa e dai colori accesi e luminosi, la certezza che nulla fosse cambiato. Riuscii a superare il contagio depressivo, il deserto della noia, solo per la qualità della regia e auto-convincendomi che l’identità presa in prestito da David fosse proprio quella Arthur Rimbaud (1854-1891). 

Ma la storia del poeta di Une saison en enfer (1873) non ha alcun rapporto con il David di Antonioni, personaggio cervellotico, psico-depresso, con il desiderio di cambiare identità per noia. Rimbaud la vita la visse pienamente in modo attivo percorrendo il mondo, non come intellettuale, non come scrittore, di certo non stando seduto a farsi “pippe” al Café Flore. Il suo punto di vista era quello di un dissoluto oppiomane bisessuale, puttaniere, degustatore di assenzio, anarco-avventuriero esploratore, trafficante d’armi e di esseri umani, un colto poco raccomandabile soldato per necessità. 

Professione reporter è un film diretto magistralmente, i suoi famosi otto minuti di piano sequenza – che diventano centoventi percepiti – hanno annichilito i comuni spettatori e esaltato i quattro lettori dei Cahiers du Cinéma. Le poetiche di Rimbaud e del suo ispiratore Gerard de Nerval (1808-1855) sono enigmatiche-surreali-astratte. Testi di difficile lettura e interpretazione, comprensione, musicali, esteticamente bellissimi, labirinti interiori da percorrere senza porsi problema di come uscirne. Dopo di loro i grandi poeti del Novecento, Roussel, Apollinaire, Tzara, Marinetti, Palazzeschi, Pound e Eliot. Rimbaud teorizzò, prima di Balla, Malevic, Kandinskij e del teosofo Mondrian, la necessità di abbandonare l’arte figurativa per una pittura astratta, dello spirito, che non dovesse rappresentare il percepito.

Quando nel 1971, studente di architettura, mi recai per la prima volta a Barcellona, la città era diversa rispetto a quella di oggi. Modellata dall’impianto urbanistico generale del 1855, con le Ramblas, le architetture e il parco dell’Esposizione Universale realizzate dall’architetto Josep Puigi Cadafalch in collaborazione con i colleghi cittadini. Un progetto di grande fascino che integrava il Montjuïc alla città, segnando significativamente il paesaggio urbano, però emarginando la parte antica del Barrio Gotico, condizionata interamente dal porto commerciale. Questa integrazione fu realizzata molti anni dopo, per le Olimpiadi del 1992, con quattro interventi di riassetto urbano e infrastrutturale: il riordino del Montjuïc, il prolungamento della Diagonal, la Vall d’Hebron e il Parc de Mar. Riqualificando Barceloneta con lo spostamento del porto commerciale a ovest del Montjuïc e la creazione del porto turistico o Port Well – Rambla de Mar per opera di Ricardo Bofill y Levi. 

Dicevo, vi andai per vedere Gaudì ma anche con la speranza di poter visitare il Padiglione Tedesco dell’Esposizione Universale del 1929 di cui avevo letto l’avvenuta ricostruzione. Ad attendermi però trovai solo uno zoccolo rettangolare rivestito in pietra, alto un metro, di fronte a una bellissima fontana luminosa posta prima della scalinata che porta al MNAC (Museo Nazionale di Arte Catalana, museo d’arte situato nel Palau Nacional) e prosegue nel Parc de Montjuïc alla Fundació Joan Miró progettata da José Luis Sert nel 1975.

Il Pavelló Mies van der Rohe lo vidi ricostruito in seguito, nel 2002, quando la Seat Automobili in collaborazione con Fundació Mies van der Rohe dedicò a mio fratello Walter, nelle sale e nei patii, un’esposizione di suoi oggetti d’arredo e automobilistici: Autoemoción. Una mostra significativa voluta proprio per sottolineare che non esistono differenze di valore nel mondo del design, di serie A o B: non solo dal cucchiaio alla città ovvero dal cucchiaio allo Space Shuttle (1981-2011), includendo pertanto anche l’automobile: come la definì Le Corbusier “la casa in movimento”. 

Di Bofill, a Savona, a soli 110 km da Torino, da vedere l’intervento urbanistico e architettonico. L’architetto catalano ha ripensato l’area tra il porto e la città, disegnando un terminale: il Palacrociere (Stazione marittima del Porto, 2003), un quartiere destinato a servizi, la Torre Orsero (2004) per commercio, abitazioni e hotel e, al posto dei capannoni dell’ex Italsider, il Crescent (2006), un edificio a forma di anfiteatro, destinato ad abitazioni e servizi. Questo intervento e il recupero funzionale della genovese Fortezza del Priamar (1542), posta sulla collina prospiciente il porto, come Museo Archeologico di Savona ne fanno un caso unico in Italia di buona gestione del patrimonio storico, culturale e ambientale. 

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