Elio Luzi in un passaggio dell’intervista contenuta nel bellissimo documentario “Eliorama” (2006), realizzato da Alberto Momo, commentando le Torri Pitagora (Luzi, Jaretti, 1964-65), dichiara che il prospetto inteso come esercizio di libera composizione non lo ha mai interessato ed esprime invece apprezzamento per la capacità del prospetto delle torri di rappresentare la complessità e l’articolazione degli spazi interni, in altre parole di raccontare la “vita” interna dell’edificio, la ricchezza delle relazioni umane e spaziali che lo caratterizzano. Tale approccio di carattere “anti-industriale” trova origine nell’ambiente culturale italiano che già verso la metà degli anni ‘50 aveva sviluppato una crescente opposizione alla segregazione sociale evidenziata dallo sviluppo delle prime estese periferie urbane, dove l’omologazione e la ripetizione standardizzata delle cellule edilizie metteva in luce la criticità del modello di sviluppo.
Nell’ambito di una retorica anti-industriale si faceva strada l’idea delle necessaria riconoscibilità delle cellula edilizia in opposizione alla standardizzazione omologante. Critica che si nutriva anche della crescente attenzione che, sempre in quegli anni, aveva spinto diversi architetti ad interessarsi alle piccole città collinari dell’Italia centrale, alle architetture rurali, alle tradizioni artigianali locali, inteso come antidoto all’alienazione sociale, allo spaesamento che il modello urbano funzionalista avrebbe generato nei contadini, trasformati forzatamente in operai a servizio del progresso industriale del paese. Si sviluppò cosi una sorta di mitizzazione della vita del piccolo borgo e delle produzione artigianale che ha origine addirittura nel “ruralismo” di Giuseppe Pagano e Garniero Daniel, e che, a partire dagli anni ‘50, attraverserà tutta la cultura italiana, dagli studi sull’“Architettura italiana ultima” di Giandomenico Pica, alla mostra di architettura spontanea curata da Samonà, De Carlo, Cerutti alla triennale del 1951, alla corrente neo-realista di Mario Ridolfi.
A questa evoluzione partecipò anche lo sviluppo delle cultura organica, promossa in Italia, dalla rivista Metron fondata da Piccinato e Ridolfi ed in seguito diretta da Zevi. Fu così che, anche in Italia, si sviluppò la critica generale rivolta verso lo sviluppo urbanistico del dopoguerra, che cominciava ad evidenziare la profonda debolezza insita nelle definitiva banalizzazione dei principi funzionalisti, tecnologici e sociali del movimento moderno. Furono tentativi critici differenti ma che miravano al superamento del “funzionalismo ingenuo” e che produssero in Italia due percorsi: da una parte quello operato dal neo-razionalismo (con architetti come Aldo Rossi, Aldo Aymonino, Giorgio Grassi, Guido Canella, Manfredo Tafuri, Ezio Bonfanti, Nino Dardi, Vittorio Gregotti), dall’altra quello che seguiranno alcuni esponenti delle scuola di Venezia (diretta da Samonà a partire dal 1943) come Franco Albini, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Ludovico Belgioioso. Architetti, quest’ultimi, impegnati, pur secondo linee di sviluppo differenti, nel recupero delle tradizioni culturali e costruttive, ma sempre secondo una re-interpretazione moderna, mai mimetica o volta alla definizione di elementi astratti. Da una parte una lettura che tendeva a individuare valori etici rifondativi, dall’altra una propensione a privilegiare la varietà e la ricchezza delle culture e delle tecniche costruttive locali, come libera risorsa del progetto, anche a partire dagli aspetti ordinari della costruzione.
A questa seconda tendenza, non molto rappresentata nella cultura architettonica italiana, possiamo ascrivere buona parte delle opere di Elio Luzi (in gran parte realizzate in collaborazione con Sergio Jaretti). Un’architettura che pur partendo da una analisi dei fenomeni sociali di carattere collettivo non disdegnava l’individualismo abitativo, le storie particolari, la differenze espresse da un luogo specifico, inteso come nutrimento essenziale del progetto. Si tratta di architetture, quelle di Jaretti e Luzi, che esprimono sempre una grande attenzione alla condizione culturale e costruttiva locale, architetture non ossessionate dallo stile, o dalla composizione, e dove, nei casi migliori, la complessità delle forme, l’articolazione e la frammentazione non attestano una soggettiva ricerca del pittoresco o una supposta condizione neo-organica, ma esprimono invece una attenzione sostanziale alla complessità dei differenti modi di abitare ed alla ricchezza delle relazioni umane che caratterizzano lo spazio di azione del progetto. Un approccio che in Italia ha avuto pochi rappresentati ma che oggi può probabilmente aiutarci ad individuare nuove vie per uscire dalla palude della poco edificante situazione italiana.
Un situazione che appare oggi compresa fra i residui delle morenti scuole di architettura e le nuove mode neo-formaliste o pseudo organiche che affollano il panorama dell’architettura contemporanea. Mi riferisco in particolar modo alla crescente presenza di architetture in cui prevale la cifra della libera autorialità, in cui sovente, all’accentuata complessità delle forme non corrisponde alcuna complessità o innovazione dei modi di abitare. Ma, tralasciando l’eccesso di modellazione plastica volta alla stupefazione, il più delle volte priva di sostanza funzionale, spaziale, simbolica o sociale, che potremmo stigmatizzare come libera “ginnastica formale”, posta a garanzia dell’autorialità (intesa come necessaria riconoscibilità stilistica), vorrei evidenziare un aspetto che sembra caratterizzare sempre più le nuove architetture: la presenza di finestre, balconi o loggiati disposti sulla facciata degli edifici senza alcun comprensibile legame funzionale, spaziale o simbolico né con l’articolazione spaziale interna, né con la condizione o i caratteri dello spazio urbano in cui si colloca il progetto. Più che di uno stile sembra trattarsi di una moda che per sua natura afferisce ad una sfera di significato legata alla comunicazione globale. Moda che si sta diffondendo a scala globale e in modo che appare sempre più indifferente ai caratteri dei luoghi. Alcuni hanno suggerito l’allusione metaforica e simbolica al codice a barre in quanto segno globale della definitiva commercializzazione di ogni aspetto delle nostre vite, operato dalle nuove economie digitali.
É il caso, ad esempio, degli edifici del gruppo RCS (2001) nelle zona nord-est di Milano, ad opera di Boeri, Barreca, La Varra. In questo caso l’edificio presenta esternamente un rivestimento che alterna le parti finestrate con porzioni di facciata costituite in lastre di vetro serigrafate e colorate. “Il tema del BarCode (…..) prende spunto dalla doppia natura del libro inteso sia come prodotto commerciale, e quindi dotato di codice a barre, che contenitore culturale di pensieri”, commenta l’arch. Gianandrea Barreca.
Ma se l’allusione metaforica al codice a barre può giustificare tale dispositivo di facciata per “vestire” un nuovo polo della comunicazione e dei media, con spazi interni sostanzialmente liberi e aperti dedicati ad ufficio, questa procedura sembra essere decisamente meno efficace e idonea se utilizzata in edifici residenziali. Nel caso delle residenze potremmo supporre che si tratti della necessità di costruire una complessità fittizia in un mercato edilizio sempre più appiattito su vocabolari costruttivi e qualitativi già di per se omologati. Una sorta di surrogato della complessità e articolazione degli spazi interni che non viene praticata ma solo rappresentata nel “vestito” esterno. In effetti, a ben vedere, in moltissimi casi la planimetria di distribuzione interna è identica per tutti i piani a dispetto di una variazione del tutto “compositiva” delle aperture esterne. E’ questo, per esempio, il caso dell’edificio per abitazioni progettato da García Floquet nel 2010 a Valencia. Le aperture non sembrano tenere in conto, in modo del tutto programmatico, della disposizione degli arredi, della presenza di viste preminenti, in una parola della sostanza di specifici rapporti spaziali tra interno ed esterno. Possiamo sostenere si tratti di un dispositivo di facciata che attiene alla procedure compositive di tipo grafico.
La facciata diventa così un semplice disegno disposto su un piano da osservare frontalmente, come accade per il disegno di un tessuto, un tappeto, una maglietta. Un linguaggio di tipo grafico che a dispetto della variazione e modulazione molto marcata sortisce però un effetto di omologazione stilistica, in netta opposizione al carattere dei luoghi.
Tendenza omologante che sembra ormai anche annidata nelle Commissioni Edilizie comunali di valutazione dei progetti, tant’è vero che, recentemente, in una commissione edilizia in cui mi è stato chiesto di presentare un nuovo progetto con finestre (ahimè) per lo più allineate le une alle altre, mi è capitato di ricevere da parte del presidente della commissione il consiglio di “far ballare le finestre” al fine di migliorare la “qualità estetica del prospetto”, senza alcuna ulteriore spiegazione se non quella della necessità di offrire una soluzione considerata dalla commissione “più moderna”. Superata la mia perplessità rispetto alla domanda, e dopo un attimo di esitazione, rischiando per altro uno scontro con l’intera commissione, ho risposto seccamente: “no, per quanto mi riguarda, le finestre non ballano da sole”. Poi, sommessamente, per persuadere la commissione, ho ricordato loro l’intervista a Elio Luzi.
Edificio per abitazioni (2010) Calle Viana, Valencia. Progettista : García Floquet Arquitectos,