Tra grande scala e scala minuta

L’ambito disciplinare di cui mi occupo è quello della progettazione architettonica e urbana, dunque le mie competenze non sono propriamente quelle di un urbanista, riguardano piuttosto una scala che va da quella edilizia al rapporto tra l’edificio e il suo contesto urbano.

Perciò lascio da parte le grandi prospettive di trasformazione di Torino e del suo ambito metropolitano; temi con cui la città deve sicuramente misurarsi fin da oggi (la FIAT o FCA, l’indotto e le forze vitali della città, le aree dimesse dalla deindustrializzazione, le nuove marginalità, la radicata ostilità alle trasformazioni, generata anche dall’involuzione della politica) ma che richiamano competenze, poteri ed energie ben più ampie di quanto appartiene alle mio campo di azione.

Tuttavia, nell’ambito del mio lavoro, immediatamente incontro questioni che riguardano il quadro di insieme e gli strumenti di governo del territorio: le norme, le tecniche, le pratiche, le risorse attraverso cui si da forma, funzione e qualità alla città e attraverso cui si incoraggia (o si ostacola) la cultura dell’abitare. In questo quadro di norme e di comportamenti, di tecniche e di abitudini – presenti tanto negli strumenti e nelle intenzioni degli Amministratori del territorio, quanto nelle aspettative degli Amministrati – mi pare di riconoscere alcune retoriche ( es. velocità e pedonalità come categorie assolute e antitetiche, luoghi dell’abitare silenziosi, isolati e protetti, funzioni omogenee e separate …) consolidate e probabilmente rassicuranti per la loro capacità persuasiva e la loro (apparentemente) semplice evidenza, ma che rischiano di produrre una lettura riduttiva della complessità urbana, e dunque in definitiva possono informare interventi inefficaci se non addirittura dannosi.

Tra le altre, la questione della sicurezzaoggi una delle inquietudini più diffuse e incisive sulla cultura dell’abitare – se isolata dagli altri aspetti del sistema sociale e urbano, può produrre risposte avventate (coercitive) e traumatiche, che possono intensificare piuttosto che attenuare tensione e disgregazione sociale.

Riportando invece la questione della sicurezza all’interno delle interazioni complesse che caratterizzano il fenomeno urbano, è forse possibile individuare strategie sinergiche, in grado di fornire contributi adeguati: se si parte dalla constatazione, piuttosto intuitiva, che gli spazi segregati, i luoghi appartati e nascosti, favoriscono i comportamenti criminali e devianti e dunque il senso di insicurezza di chi li percorre, allora all’opposto, tanto più gli spazi urbani sono animati, accessibili, permeabili alla vista, tanto più in essi si esercita quel presidio sociale fatto di comunicazioni simboliche, di valori condivisi, di opportunità di integrazione, che può costituire un efficace deterrente nei confronti di comportamenti ostili e aggressivi, senza necessariamente dover ricorrere a provvedimenti coercitivi. E l’animazione non si produce tanto attraverso la concentrazione di funzioni affini (Centri congressi, Fiere… Stadi…) che sembrerebbe riproporre i vecchi principi della zonizzazione (la ripartizione della città in comparti funzionalmente omogenei) quanto piuttosto attraverso l’integrazione tra funzioni urbane eterogenee: residenza + commercio + terziario……

Un insediamento piccolo e grande che sia – intendendo con questo termine un qualsiasi sistema di edifici destinati ad una comunità umana inserito in un ambiente territoriale – è costituito da manufatti edilizi, tessuto connettivo, sistema di percorsi e luoghi di sosta, ed esso non si dà senza che venga definito il ruolo complessivo dello spazio collettivo, senza che si stabilisca un rapporto tra pieni e vuoti di edificazione. E non si tratta solo di quantità di superfici piane, valutate indipendentemente dai loro caratteri qualitativi.

Così come alla grande scala i pattern urbani, le impronte che ci restituiscono con l’immediatezza di un bianco/nero assoluto il rapporto tra vuoti e pieni, trasmettono informazioni essenziali sull’identità morfologica, culturale, storica e – perché no – politica dell’insediamento, sulla  matrice genetica ed economica, sulla sua struttura gerarchica e sui modelli insediativi in base ai quali lo spazio viene modellato e abitato, sul rapporto tra pubblico e privato, sulla densità dei volumi edificati, sulla concentrazione o disseminazione di luoghi di centralità collettiva – insomma sullo spirito di una città”- così, alla piccola scala, la strada, la piazza, il giardino non possono essere letti come semplice superficie piana con una specifica destinazione funzionale; queste categorie, ricondotte entro la definizione di spazio pubblico, debbono essere lette nell’insieme di relazioni che intrattengono con il sistema insediativo nel suo complesso – prossimo e generale – e con il sistema tridimensionale delle quinte che li incorniciano (la rue corridor tanto disprezzata in passato, quanto rivalutata nella contemporaneità). In particolare, le strade interne ai tessuti densi costituiscono un “unicum” con le quinte edificate che le circondano, stabiliscono una interdipendenza particolare e inscindibile con i piani terreni degli edifici, producono continuità o discontinuità percettive, costituiscono il supporto (o impediscono) di pratiche sociali, comportamenti, tessuti economici e produttivi……

Anche la realizzazione di isole pedonali interviene in questo tipo di lettura complessa dei sistemi insediativi e non può essere imprigionata all’interno di stereotipi utilizzabili in modo indiscriminato e diffuso; le isole pedonali funzionano molto bene in luoghi dei dimensioni contenute e facilmente accessibili, in cui esista già un elevato livello di animazione (tessuti urbani centrali, aree monumentali e ambientali, complessi scolastici…) ma possono al contrario, produrre desertificazione e dunque insicurezza nelle zone più marginali, servite in modo insoddisfacente e periferiche.

I piani terreni

Nella tradizione storica della città borghese, i piani terreni delle strade urbane erano (e sono in parte ancora) occupati – soprattutto nelle aree centrali – da attività commerciali, artigianali, da funzioni legate alla cultura, alle istituzioni e al loisir, mentre i piani superiori erano prevalentemente adibiti alla residenza; una commistione che rendeva le strade animate, rumorose, attraversate (lentamente) da una popolazione eterogenea.

Oggi, la concentrazione delle imprese commerciali, la crescita smisurata e parassitaria degli shopping center e delle multi-sale nelle aree periurbane, sta progressivamente svuotando i piani terreni delle nostre strade; gli ambienti che si affacciano sulle strade urbane sono, nella nostra cultura, poco appetibili come spazi per la residenza; per contro, i piani ammezzati che grazie al loro livello più elevato meglio proteggono la riservatezza degli abitanti, presentano inconvenienti legati alla accessibilità ai disabili; la formula “moderna” dei piani pilotìs ha dato luogo a grandi quantità di spazi privi di funzioni, malamente utilizzati, svogliatamente fruiti e, di conseguenza, negligentemente puliti e mantenuti, resi in definitiva spazi inutili e ostili.

“Cosa fare dei piani terreni” delle case che si affacciano sulle vie e sulle piazze delle nostre città è questione che costituisce, a mio parere, un esempio eloquente di quanto i fenomeni complessi ed apparentemente indipendenti che coinvolgono le dinamiche urbane contemporanee, siano in grado, attraverso la loro interazione, di produrre cultura urbana o al contrario disaffezione e disgregazione sociale.

I piani terreni degli edifici costituiscono un nodo cruciale nella progettazione – che si presenta ai progettisti dei pochi nuovi edifici urbani, e che diviene ricorrente nei progetti di trasformazione e riuso – in quel nodo si esercita in modo particolarmente intenso un collegamento diretto tra la scala generale del territorio, delle politiche che informano il suo governo, dei provvedimenti e delle norme che ne traducono esecutivamente la volontà, con gli aspetti minuti, alla scala geografica della prossimità, così come alla scala della quotidianità.

Allora cosa fare?

Secondo il mio modesto avviso, le strategie cui fare riferimento possono essere così indicate:

alla scala più generale.

  • riportare al centro della strategia politica la questione della città come bene comune, il cui interesse deve prevalere sull’interesse individuale. In funzione di ciò, occorre riconoscere allo spazio pubblico il ruolo di luogo privilegiato della scena collettiva, dell’interazione sociale, dell’integrazione e della consapevolezza civile (sottraendolo, per quanto necessario, alla egemonia della mobilità)…… Dunque, in generale, attribuire carattere strategico alle politiche indirizzate allo spazio pubblico, agli interventi di riqualificazione funzionale e formale, al promuovere una cultura urbana legata alla prevalenza del pubblico sul privato, alla socialità e all’integrazione, piuttosto che all’isolamento e all’esclusione.
  • mettere in atto comportamento politico che proceda attraverso la trasparenza, l’informazione e la condivisione; il che non significa impantanarsi in una gestione assembleare della cosa pubblica, ma stabilire un dialogo responsabile tra amministratori e cittadini, attivare forme di accompagnamento dei progetti che realizzino strutture di costante informazione e confronto; cercare di ricostruire una cultura civile capace di radicare fiducia nelle possibilità di migliorare il mondo, a partire dallo spazio in cui abitiamo
  • confermare – e se possibile incentivare – la politica già in atto di promozione della cultura, nelle sue varie forme, come generatore di emancipazione, socialità e civiltà urbana.
  • dare attivazione ad una effettiva politica di nuove centralità: anche gli eventi commerciali e culturali potrebbero essere maggiormente distribuiti in spazi pubblici non centrali.

Alla scala più minuta.

  • La parabola dei grandi centri commerciali è probabilmente già in fase di decrescita dunque potrebbe essere il momento buono per individuare strumenti e nuove forme di organizzazione commerciale, che permettano di riportare (e conservare) lungo le strade centrali una parte delle attività commerciali, soprattutto quelle legate alle merci di uso quotidiano, riducendo così anche l’esigenza di mobilità.
  • Dal punto di vista della mobilità, credo che esistano più strumenti, da usare in modo articolato, per raggiungere due obiettivi principali: diminuire il numero complessivo dei veicoli privati circolanti (ad esempio Car sharing, noleggio con autista ecc.) e permettere una migliore convivenza tra pedoni e veicoli (ad esempio, zone 30 km/h).
  • Il piano regolatore del tempo: uno studio attento e dettagliato sulla distribuzione delle diverse attività nell’arco del tempo, e degli effetti indotti sulla congestione urbana (gli orari di apertura di negozi, scuole, uffici, dei servizi di nettezza urbana, di trasporto delle merci…..); la conseguente messa a punto di provvedimenti atti ad evitare, per quanto  possibile, eccessi di concentrazione in poche ore della giornata o in certi giorni della settimana o periodi dell’anno.