Siamo in Sardegna, un’isola da sempre caratterizzata da una economia povera, imperniata sull’attività agro-pastorale a carattere estensivo. Proprio per questo, fin da quando era entrata a far parte dei domini della dinastia dei Savoia, vi si erano sperimentate iniziative per “popolarne” o “ripopolarne” vaste aree, sia per ispirazione del riformismo illuminato settecentesco, sia per effettuare un più efficace controllo del territorio e combattere il banditismo, fenomeno endemico già allora.

Alla necessità di migliorare la sorveglianza del territorio si aggiunse nel XIX secolo la volontà di favorire il progresso economico e sociale, contando proprio sull’eliminazione dei fattori che ne causavano l’arretratezza: la malaria e, in generale, la scarsità dei terreni coltivabili. In particolare dopo l’abolizione del feudalesimo (1836) e l’unificazione del Regno d’Italia, si vararono in Sardegna vari progetti di bonifica, soprattutto delle aree pianeggianti e malariche prossime alle coste.

I primi interventi di una certa importanza, per estensione e ricadute economiche, si ebbero però dopo che i governi del Regno, in seguito a ripetute agitazioni sociali, emanarono le prime specifiche leggi speciali, che nel 1897 e poi nel 1907 resero disponibili sostanziosi incentivi per lo sviluppo. Fu in questa fase, a cavallo tra i due secoli, che anche in un territorio già interessato da una significativa attività agricola come quello di Alghero si avviarono le prime opere di bonifica della Nurra, situata più a nord, tanto a spese di privati (si ricordano le tenute vinicole de “i Piani” e l’azienda di Surigheddu) quanto per iniziativa statale, come nel caso della Colonia penale di Cuguttu, proprio alle porte della città.

La Nurra era sempre stata nei secoli una delle zone più inospitali della Sardegna. Il clima caldo e arido dei mesi estivi, l’alta frequenza e violenza dei venti dominanti di “maestro” e la malaria, costituivano gli ostacoli principali al suo sviluppo. Diversi erano stati i tentativi di intervento per fronteggiarli da parte di amministrazioni locali e dello Stato, senza che mai si realizzasse l’atteso decollo socioeconomico di questo territorio.

Compresa negli attuali comuni di Alghero, Sassari, Porto Torres, Stintino e Olmedo, la Nurra era in gran parte coperta da una fitta macchia mediterranea ed era abitata prevalentemente da pastori che vivevano ancora in case-ovili di pietra e paglia (sa pinnetta, in sardo). La parte ricadente nel territorio algherese, inoltre, era caratterizzata da uno stagno di medie dimensioni, il Calik, e da un sistema di paludi e acquitrini che rendevano l’area perennemente malsana e quasi spopolata. Gli unici segni di civiltà erano gli edifici della colonia penale, dove i carcerati erano impiegati nella coltivazione dei terreni appena bonificati, un vecchio ponte (addirittura medievale) che attraversava lo stagno e qualche piccolo podere (M. Farinelli). 

Insomma, la Nurra all’inizio degli anni Trenta era una landa acquitrinosa, infestata dalla malaria, isolata e desertica, “ai confini del mondo”. Per tentare di rimediare in qualche modo al suo spopolamento già da molto tempo, tra il 1600 e il 1860, il comune di Sassari aveva concesso appezzamenti a contadini disponibili ad insediarsi sul posto: circa 800 nuclei familiari, provenienti dai comuni di Sassari, Osilo, Ossi, Tissi, nel corso degli anni vi si erano trasferiti stabilmente.

In realtà un vero interesse per quella zona si concretizza tardivamente, nel 1898, con la bonifica dello stagno del Calik, realizzata sfruttando la manodopera dei forzati, per continuare con la costruzione dei villaggi operai posti sulla strada tra Alghero e Porto Conte e con l’insediamento di una azienda agricola prossima al lago di Baratz, entrambi del 1927 (G. Frulio). 

Dopo essersi avvicendato all’iniziativa privata già nella bonifica della limitrofa pianura di Terralba, sostituendosi ad essa e sperimentando in tal modo la sua capacità di intervento, il governo fascista si apprestò ad organizzare le successive e più impegnative operazioni di prosciugamento della sua vasta area paludosa, malarica e disabitata.

A partire dal decennio successivo decise di intervenire attraverso l’Ente Ferrarese di Colonizzazione (EFC), appositamente costituito, che iniziò la sua attività su un comprensorio di circa 30 mila ettari, di cui 8.000 furono poi messi a coltura. Qui venne costruito un centinaio di case rurali, con le attrezzature necessarie a completare l’intervento pubblico e qui, soprattutto, si decise di fare nascere Fertilia, una delle città di fondazione realizzate durante il fascismo, la cui vicenda iniziò nel 1933 proprio con la bonifica integrale della Nurra. Che, forse proprio per la sua collocazione, tra le città nuove del Ventennio, è certamente quella rimasta più vicina al borgo rurale originario.

A tale scopo, a partire dal 1933, l’EFC (poi ribattezzato Ente sardo di colonizzazione), fu chiamato ad occuparsi anche di convogliare sul territorio il flusso delle nuove migrazioni provenienti dalla penisola. L’attività di colonizzazione, nella fase storica che precedette quella dell’istituzione dei consorzi di bonifica, si caratterizzava per: 

  • il risanamento di terreni, lagune, valli da pesca e l’espropriazione di parte del latifondo, introducendo al suo posto la piccola proprietà contadina a riscatto;
  • l’assegnazione dei terreni bonificati ai braccianti agricoli disoccupati, anche abitanti nei comuni limitrofi, tenendo conto del numero dei componenti il nucleo familiare.

I braccianti diventavano “coltivatori diretti” in quanto affidatari di poderi quale unica fonte di reddito. Di qui l’esigenza   di contare su nuclei familiari numerosi (che contassero almeno 6 figli) per produrre di più e poter corrispondere allo Stato per 30 anni una quota di reddito come “riscatto”; contemporaneamente, sottoposti al patto di riservato dominio, agli assegnatari veniva impedito per lo stesso arco di tempo, la vendita del podere.

Tale programma, reso possibile da una vasta campagna di espropriazioni, era finalizzato alla creazione di un “sistema urbano” di presidi agricoli, poderi e nuovi collegamenti stradali sparsi su ampia scala, sul modello di forte decentramento avviato in Agro pontino. Per far ciò si avvalse inizialmente della capacità di accoglimento di piccoli centri abitati di recente realizzazione, quali il citato villaggio di Calik (1927, ingegnere Pier Luigi Carloni) e le aziende agricole di Barazze (1927, ingegnere Fausto Cella) e di Maria Pia di Savoia, presso l’ex colonia penale agricola di Cuguttu, dove si insediarono le prime famiglie romagnole.

In questo periodo, l’uomo che promosse lo sviluppo di quest’area degradata della Sardegna fu Mario Ascione, esponente di rilievo del sindacalismo agrario fascista, che ricoprì numerosi incarichi di rilievo, sempre più importanti, nell’organizzazione del potere del regime, sino a diventare deputato nel 1929.

I progetti di risanamento e ripopolamento, affidati all’Ente di colonizzazione da lui voluto e presieduto, vennero elaborati in accordo col Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna e l’INPS, che fornì i capitali necessari per l’acquisto dei terreni. I lavori iniziarono nell’ottobre 1934 sotto la supervisione del Sottosegretario alla bonifica integrale; dopo sei mesi, nella colonia penale di Cuguttu, ceduta nel frattempo dallo Stato all’EFC, venne inaugurata l’azienda Maria Pia di Savoia in cui vennero trasferiti i primi coloni.

Particolarmente stimolante è l’approfondito studio che Manuel Farinelli ha svolto sul “caso di Fertilia” e dal quale sono tratte molte delle osservazioni che seguono.

Un aspetto importante – sottolinea giustamente – di questo interesse del regime per migliorare le condizioni di vita della popolazione era rappresentato dalla politica di colonizzazione e migrazione interna, praticata soprattutto durante gli anni ‘30. Le prime esperienze furono realizzate proprio in Sardegna, l’area più spopolata del paese, dove nell’estremità nord del Campidano agli inizi degli anni ‘20 un gruppo privato, la Società Bonifiche Sarde, aveva già intrapreso un vasto progetto che portò alla realizzazione della “città nuova” di Mussolinia (oggi Arborea).

Il modello inaugurato a Mussolinia fu sviluppato e applicato su larga scala nel decennio successivo nel risanamento delle paludi pontine, dove l’estensione dei terreni, il numero di coloni e l’uso propagandistico che se ne fece resero questa bonifica la più conosciuta e spettacolare.

Perciò, quando il governo si impegnò a portare a termine una più incisiva opera di messa a coltura nell’isola, si mosse contando su un’esperienza già ampiamente compiuta. Ma per le risorse messe in campo nei lavori e per l’insieme dei significati ideologici ad essi connessi, non si può considerare la colonizzazione fascista come semplice continuazione delle iniziative precedenti.

Grandi “aspirazioni sociali, scientifiche e politiche caratterizzarono fortemente il fenomeno della bonifica e della fondazione di nuovi centri urbani, sia entro i confini nazionali che nei possedimenti coloniali, dove certi aspetti furono sicuramente più accentuati”. Queste “città innovative”, concepite come un centro attorno al quale gravitassero la bonifica e la colonizzazione, dovevano porsi come i luoghi ideali per realizzare utopie sociali e di “miglioramento della specie umana”, e erano pertanto profondamente diverse da quel “tipo di urbanesimo che è distruttivo, che isterilisce il popolo, ed è l’urbanesimo industriale” (B. Mussolini, Discorso dell’ascensione, Libreria del Littorio, Roma 1927).

Sono questi gli elementi (costruzione del consenso, “gestione” della popolazione, aspirazioni imperiali e autarchia) che caratterizzarono anche la bonifica della Nurra (M. Farinelli). L’EFC dovette organizzare il trasferimento di centinaia di famiglie provenienti dalla provincia di Ferrara nella poco fascista piana algherese mentre, allo stesso tempo, doveva occuparsi della bonifica, della costruzione degli alloggi e dei fabbricati agricoli, nonché dell’assistenza tecnica e finanziaria ai nuovi arrivati. Tutta l’operazione ebbe origine, in sostanza, dal territorio ferrarese.

Nato con il compito di trasferire il maggior numero possibile di famiglie tratte specificamente dalla provincia di Ferrara, l’Entesi proponeva non a caso di ridurre la presenza di braccianti disoccupati di quella provincia, perché era una delle zone del Paese socialmente più instabili”. Il territorio estense, infatti, era un coacervo di diseredati e di senza terra, in cui l’assenza di mezzi di sussistenza caratterizzava larghi strati della popolazione rurale. Ma, soprattutto, sia i coloni che il personale tecnico-amministrativo dovevano provenire in prevalenza dalla provincia di Ferrara, perché era una delle culle del fascismo, e l’esclusione dei locali lasciava presagire l’obiettivo di dar vita a una colonia di “fascisti perfetti”.

L’EFC iniziò i lavori nel 1934 su di un’area molto vasta, ma solo sui terreni della colonia penale e su quelli improduttivi e malarici del demanio comunale, in modo di non toccare gli interessi dei grandi proprietari terrieri. Per di più, invece di aspettare che l’area fosse totalmente bonificata, avviò il trasferimento dei coloni mentre i lavori erano ancora in corso, con la conseguenza che molti furono infettati dalla malaria o incontrarono grosse difficoltà a rendere produttivi i loro terreni. 

Ciononostante, per le dimensioni del territorio e per la iniziale rapidità con la quale procedette la bonifica, si trattava di un’opera imponente rispetto a quelle precedenti: già nel 1935 furono assegnate 65 case coloniche e l’anno successivo altre 129 famiglie di contadini si trasferirono nell’area, trasformando una zona disabitata e malsana per secoli in una località fertile e tranquilla, come annunciò il regime, grazie alle capacità del “nuovo italiano”. Al centro di quest’area, inoltre, venne costruito un aeroporto militare, fondamentale per controllare i collegamenti con la penisola iberica durante la guerra civile spagnola, e che acquisì ancora più importanza durante la seconda guerra mondiale. 

Nel 1935, due anni dopo la fondazione dell’Ente, erano già stati risanati 6.000 ettari grazie al faticoso lavoro dei ferraresi trasferiti a poco a poco in una regione desertica e ventosa, ma il processo di antropizzazione della zona era proceduto comunque lentamente. Ascione, responsabile della bonifica, cercava di rassicurare circa le condizioni di vita dei futuri coloni: il territorio era stato dissodato, in parte rimboschito e messo a coltura con olivi, mandorli, viti e cereali e, inoltre e si poteva contare su un migliaio di capi di bestiame. Ma la popolazione della zona ammontava ancora a 513 persone, mentre tra il 1934 e il 1938 si erano registrate solamente 56 nascite.

La progettazione del nuovo centro fu affidata inizialmente ad Arturo Miraglia, un ingegnere napoletano, fascista della prima ora e legionario a Fiume, che aveva trovato una sistemazione economica e professionale nell’EFC (infatti fu responsabile di altre strutture realizzate nel territorio algherese). La planimetria generale che predispose dettagliava solo i progetti della chiesa e della scuola elementare (unico edificio realizzato di quelli da lui progettati), ma faceva intuire le sue ambizioni di proporre una “città nuova”, che finiva per riassumere però “tutte le caratteristiche e le contraddizioni dell’architettura di questo genere” (M. Farinelli). 

Infatti, se la pianta radiale, la forma della scuola e la distribuzione delle principali arterie stradali erano di ispirazione futurista, al contrario le piccole dimensioni degli edifici e la presenza di abbondanti spazi verdi ricordavano il modello della “città giardino” teorizzato da Ebenezer Howard, e erano palesemente volti a dare una “dimensione rurale” al nuovo centro urbano che il fascismo voleva fondare. Anche Fertilia, come altre città di fondazione, veniva da lui organizzata attorno ad uno spazio monumentale dove radunare la popolazione durante le grandi manifestazioni, coronato dagli edifici dello Stato e del partito: una estensione imponente che si prolungava dal sagrato della chiesa fino ad una terrazza sul mare, simile alla poppa di una nave. In questa disposizione “risaltano soprattutto le dimensioni della piazza e dello stadio che, spropositate anche rispetto all’attuale popolazione, erano state pensate per accogliere grandi masse di coloni” (M. Farinelli).