Tutto cio’ che appartiene al mondo materiale è destinato a invecchiare: gli esseri animati come pure le cose, anche quelle che la presunzione dell’uomo ha immaginato poter sfidare l’eternità, sono destinate prima o poi a rivelare la loro temporalita’ e la loro incompiutezza.
Marco Belpoliti, sulle pagine di Repubblica del 18 agosto, dopo l’immane tragedia del Ponte sul Polcevera, contribuisce con pacatezza al dibattito affannoso di questi giorni, ricordando un libro di Henry Petroski “Gli errori degli ingegneri. Paradigmi di progettazione” pubblicato in Italia nel 2004 da Pendragon. Secondo Belpoliti, la conclusione di Petroski è che “il concetto di errore è il fondamento del processo di progetto“.
Progettare, ossia prefigurare cio’ che ancora non c’è, rinunciando a modelli e parametri collaudati, significa affrontare il rischio dell’inesplorato, e per ridurre al minimo quel rischio, occorre essere sufficientemente consapevoli e distaccati da prendere in considerazione ogni possibile incidente di percorso, ogni plausibile cambiamento delle condizioni d’esercizio, ogni fase del ciclo di vita del manufatto.
Ma anche le idee subiscono la stessa sorte: nascono, crescono, rivelano i propri limiti, decadono e sono sostituite da altre. Dall’esaltazione del “Progresso” del “Moderno” del “Nuovo” come strappo orgoglioso nei confronti della tradizione, si è passati attraverso la fase del Post-moderno, ad una revisione critica di paradigmi sostenuti da una eccessiva fiducia nella Tecnica, fino alla constatazione – è del 1972 il Rapporto sui limiti della crescita redatto dal MIT – della necessità di commisurare il consumo di risorse alla capacità globale del pianeta di rigenerarsi. Eppure il divenire delle idee si confronta con la resistenza diffusa ad abbandonare le proprie abitudini, i privilegi e le sicurezza raggiunte.
E’ plausibile che una componente dello shock che ha scosso la nazione, prodotto dal terribile crollo del Ponte di Morandi, debba essere fatta risalire anche all’improvviso e drammatico sgretolarsi di abitudini e sicurezze diffuse, alla impossibilità di continuare ad esorcizzare indefinitamente (aiutati anche dalla nostra abituale approssimazione) le minacce quotidianamente presenti in un ambiente costruito una volta per tutte, nell’illusione che i materiali e le tecniche della modernità’ abbiano espunto dai nostri modelli di vita, nel sentire comune, la cultura della manutenzione: quei rituali faticosi e ripetitivi, ma solidamente inseriti nella cultura materiale tradizionale, che in una Italia all’inizio della industrializzazione ha fatto si’- per un po’ di anni – che i montanari scesi in pianura per diventare operai, risalissero in montagna ogni estate per ripassare le lose dei tetti delle loro baite.
Solo da poco, con il diffondersi del tema della “sostenibilità” che riconduce alla necessita’ di comprendere l’intero ciclo di vita degli edifici, la manutenzione e’ entrata a pieno diritto nell’ambito delle competenze del progetto e la comunità scientifica ha elaborato studi e strumentazioni diagnostiche sofisticate per conoscere il comportamento nel tempo dei manufatti. Ma questi aspetti sono ancora ben lontani dalla consapevolezza e dalle pratiche diffuse di chi abita e trasforma, governa il territorio. Prova ne sia la confusa e affannosa ricerca sui dati della manutenzione effettuata sul ponte, sui tempi e i modi, sulle tecniche diagnostiche usate, scoprendo con sorpresa quanto questo settore sia ancora arretrato, dal punto di vista delle tecnologie correnti, delle norme, della azione delle autorità di controllo. Alla ricerca sommaria di negligenze e responsabilità, che almeno in parte ricadono su un modello di “sviluppo” tutto orientato alla esorbitante produzione di merci, dispositivi, infrastrutture sempre piú avanzate e clamorose, su regole di mercato che ancora premiano – come e’ evidente dai dati del consumo di suolo nel nostro paese – la crescita del parco del costruito rispetto alla tutela dei beni, del territorio, dell’ambiente.
foto di boudica2008 da www.flickr.com