Conoscete Bruno Zevi? Ho fatto questa domanda agli studenti e ai giovani architetti che sono venuti nel mio studio qualche settimana fa in visita e siccome, tra le altre cose, in questo periodo mi occupo di IN/Arch, ho cercato di capire se conoscessero il suo fondatore. In risposta ho ricevuto dai più sguardi incerti e timidi balbettii. Quindi abbiamo deciso, con l’avvicinarsi del Congresso Nazionale IN/Arch del prossimo aprile, di dedicare un articolo a Bruno Zevi, che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni, e al suo lavoro rivolto a costruire l’incontro tra architettura e società civile.
Incontro tanto più attuale e necessario quanto più la fragilità del nostro eco-sistema impone un atteggiamento di cura e di rispetto, che potrà offrire dei risultati tangibili solo con il coinvolgimento attivo di tutti, e non solo degli addetti ai lavori.
Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione verso il cibo proveniente da coltivazioni più rispettose dell’ambiente, abbiamo imparato a prediligere materie prime stagionali e produzioni a filiera corta, si sono moltiplicate azioni, – non tutte sensate o meritorie, per la verità, – di coinvolgimento verso un’alimentazione più sana e la riscoperta di processi tradizionali di coltivazione, allevamento e preparazione del cibo. La prova di quanto questo processo abbia permeato vari strati della popolazione è il moltiplicarsi dei cibi biologici negli scaffali dei supermercati e della grande distribuzione, la crescita nella vendita di pane fatto con lieviti naturali, la fortuna di alcuni marchi o di alcune realtà commerciali imperniate sul concetto di cibo di qualità.
Non abbiamo, invece, rivolto la stessa attenzione allo spazio che ci circonda, lasciando che l’indifferenza e l’incuria inghiottano larga parte delle nostre città, in particolare nelle aree periferiche, e delle nostre campagne.
Abbiamo spesso trattato, e continuiamo a farlo, i nostri centri storici come simulacri di un tempo passato, invece che che come patrimonio che può aiutarci a comprendere il nostro presente.
Abbiamo celebrato le architetture episodiche delle grandi firme come segnale di sviluppo ed internazionalizzazione, senza renderci conto di aver reso luoghi e città tutti uguali, e di aver appiattito il dibattito su categorie irrilevanti del “bello/brutto”. “alto/basso” e così via.
Tuttavia la qualità dello spazio in cui viviamo non si misura attraverso i canoni della “bellezza”, ma dalla capacità di accogliere, di essere abitato, di esprimere i valori simbolici e materiali della nostra civiltà.
L’architettura incide in maniera significativa sulla vita quotidiana di tutti, modifica i comportamenti, rappresenta ragione di benessere o di insicurezza, di appagamento o di disagio, genera o disincentivi processi di crescita economica, produce lavoro.
Per tracciare una strada su cui incamminarsi bisogna innanzitutto cercare un linguaggio comune, che riapra la collaborazione tra la società e gli addetti ai lavori, attraverso parole che aprano nuove ipotesi di senso, sfondino i confini delle discipline, accettino la contaminazione.
In questo senso il tema dell’accoglienza, lanciato da IN/Arch come traccia del Congresso nazionale, assume rilevanza perché ricorrere alla parola accogliente significa operare una scelta, ricondurre l’architettura al compito di rappresentare – con le proprie forme materiali – i valori civili della società che lo abita.
Nei prossimi numeri approfondiremo questi concetti, oggi però cominciamo a declinare le parole etica e fiducia, che, come vedere proseguendo nella lettura, possono rappresentare un avvio nel percorso che stiamo cercando di tracciare.